Milano (AsiaNews) – Da mesi in Iraq si discute di una bozza di legge sullo sviluppo dei giacimenti petroliferi e della suddivisione degli utili. E piovono accuse – che noi crediamo non vere - sugli americani che vorrebbero incamerare i proventi. L’edizione del quotidiano inglese The Independent di domenica 7 gennaio titola: “Allora è vero che questa guerra in Iraq, dopo tutto, è stata combattuta per il petrolio ?” Un altro titolo del servizio recita: “Il super montepremi da 50 miliardi di dollari per le società Usa che raccolgono i pezzi di un Iraq in briciole” (“The bn bonanza for US companies piecing a broken Iraq together”).
Nel testo si afferma che questa è la prima volta che accordi di suddivisione della produzione (ASP) verrebbero applicati da un grande paese produttore di petrolio in Medio Oriente. La frase successiva è così abilmente formulata che, se non si legge con attenzione, si può dedurre che Arabia Saudita ed Iran non offrano tali tipi di contratto alle società straniere. Nel riprendere l’articolo dell’Independent, catene televisive come la Cbs, pressate dagli stretti tempi televisivi, distorcono ulteriormente il contenuto ed annunciano che gli accordi prevedono una ripartizione del greggio prodotto, con il 70% a favore delle società occidentali ed il rimanente all’Iraq. Il tutto è poi condito con le fritte e rifritte solfe sul vicepresidente americano Dick Cheney e sui contratti ottenuti in Iraq dalla Halliburton, la società da lui presieduta prima di entrare a far parte del governo degli Stati Uniti.
Un po’ di bugie
Vale la pena precisare che AsiaNews non è deputata alla difesa d’ufficio del governo americano e non è nemmeno la Guardia Bianca a difesa dell’Impero Americano contro i neo bolscevichi “no global”. AsiaNews è solo un’agenzia missionaria cattolica che ama la verità. Nel caso specifico la verità non è quella frettolosamente riportata dalla Cbs e nemmeno quella distorta dell’Independent. Le condizioni previste dalla bozza di legge per gli ASP sono: 20 % della produzione alle società private ed 80 % ad un fondo statale iracheno da ripartirsi in rapporto alla popolazione tra le varie regioni del paese, quindi anche a favore delle zone sunnite nel cui sottosuolo non c’è petrolio. Tale rapporto 20/80 è calcolato dopo aver prima dedotto un canone di concessione (royalty in inglese) pari al 12,5 % del greggio estratto e dopo aver dedotto una quota dei costi di produzione sostenuti dalle società assegnatarie delle concessioni. I costi di produzione deducibili sono al massimo il 70% di quelli sostenuti ed ammessi in deduzione. Questo è dunque il 70% di cui parla la CBS, la grande catena dell’informazione liberal.
Per quanto riguarda l’arco temporale delle concessioni che la bozza di legge prevede di offrire, esso è di 10 anni, non di oltre 30 come riferisce The Independent. La bozza della legge dice che dopo i primi 10 anni, il contratto potrà essere rinnovato a condizioni da rinegoziarlo per altri 25 anni. Sommando i due termini temporali si arriva certo agli oltre 30 anni di cui scrive il quotidiano inglese. Ma sommarli è arbitrario, perché non c’è certezza che alla scadenza le concessioni vengano rinnovate nei termini attuali. Arbitrario è quindi anche scrivere che si stanno svendendo le risorse delle future generazioni irachene.
Infine non è vero che i Paesi grandi produttori di petrolio non offrano gli ASP. È vero anzi il contrario: quasi tutti i Paesi ne propongono di simili, anche i paesi dell’Opec ed i paesi citati dall’Independent. In particolare, l’Arabia Saudita offre condizioni particolarmente vantaggiose per quelle società interessate ad avventurarsi in zone nuove ed in giacimenti relativamente più a rischio. Senza andare tanto lontano, l’Independent avrebbe potuto guardare in casa propria, in Gran Bretagna, dove il governo di Sua Maestà non chiede un canone di concessione, ammette in deduzione il 100 % dei costi di produzione effettivamente sostenuti, ivi inclusi molti costi immateriali, e le società estrattive sono solo sottoposte al normale prelievo fiscale inglese con l’aliquota del 30 %. Certo i costi di produzione nel Mare del Nord sono teoricamente molto superiori a quelli in Iraq. Ma quale è però il costo della sicurezza ed in particolare delle società di sorveglianza? Quante società si arrischieranno ad inviare i costosi impianti di trivellazione in Iraq a rischio di vederseli evaporare in un non improbabile attentato ? Anche l’Independent ammette che in pratica nessuna delle grandi società occidentali si arrischierà nell’avventura irachena, nemmeno i russi ed i cinesi. Eppure all’epoca di Saddam Hussein proprio i cinesi, i russi della Lukoil e di altre compagnie, come pure la Total della laica Francia, avevano fatto lucrosi affari. Senza sborsare valuta - in cambio di armi, un settore dove il margine di ricarico di rado va sotto il 300% e più spesso è di molto superiore - avevano ottenuto concessioni di giacimenti in zone ultrasicure valutando le riserve ad 1 dollaro Usa al barile di petrolio effettivamente estraibile e comprovato. Le concessioni relative ai contratti allora conclusi sono tuttora rivendicate come pienamente legittime, anche se ottenute con maniere poco pulite.
Ambientalisti e guerrafondai
Chi c’è dietro una campagna di disinformazione così articolata? Un indizio ce lo fornisce lo stesso Independent nell’articolo menzionato, laddove cita Greg Muttitt, presentato come un attivista di Platform, un gruppo ambientalista per i diritti umani che fa riferimento al “Global Policy Forum”. Sul sito di quest’ultima si trova un’analisi simile a quella dell’Independent dal titolo : “Crude Designs: The Rip-Off of Iraq’s Oil Wealth”. Il Global Policy Forum è insomma un gruppo che si batte contro l’imperialismo americano.
A questo punto ci permettiamo di rilevare alcune incongruenze. Che razza di imperialismo idiota è quello americano che spende 1.000 miliardi di dollari (l’Independent, forse sbagliando, scrive “2.000 miliardi” di costo della guerra in Iraq) per distribuirne appena 50 ad alcune sue imprese ?
I governatori dell’Impero britannico dovevano ogni anno mostrare al ministero delle Colonie il bilancio in crudi termini di costi, paghe dei soldati di stanza nella regione, spese relative, salari dei funzionari addetti, e ricavi, dazi doganali, imposte, ecc… Se i bilanci non quadravano, dopo un po’ si chiudeva la colonia. È quanto si è fatto agli inizi degli anni ’60 con l’improvvisa decolonizzazione e la graziosa, ma ben calcolata, concessione dell’indipendenza alle molte colonie africane.
Emerge anche un dubbio: i portavoce di questa bandiera anti-imperialista sono in realtà degli ambientalisti o meglio dei conservazionisti. La nebulosa attorno al Global Policy Forum è fatta di circoli di pensiero neo-malthusiani, vicini anche ad alcune frange dell’Onu. Secondo costoro la terra non ha risorse sufficienti ed occorre perciò ridurre la popolazione mondiale, mediante aborto, diffusione e uso di preservativi, e più in generale attuando un controllo delle nascite. E forse qualcuno di loro pensa - sotto sotto - anche ad una bella guerra mondiale.
Le risorse non mancano
Lasciando da parte questi elementi ecologici e un po’ diabolici, vale la pena affermare che in realtà le risorse non mancano e lo dimostra proprio il caso dell’Iraq. Lo stesso Independent dice che dal sottosuolo iracheno si potrebbero ottenere 6 milioni di barili al giorno, mentre tuttora la produzione è ferma ben al di sotto dei 2 milioni giornalieri. Già questo incremento potrebbe alleviare la sete d’energia dell’Asia. Eppure questa è una stima per difetto. I giacimenti iracheni hanno potenzialità ben più grandi. L’Independent riporta – questa volta correttamente - che le riserve provate irachene ammontano a 115 miliardi di barili. È una stima basata sulle attuali e più accreditate valutazioni tecniche. Ma secondo fonti di AsiaNews tale valore potrebbe essere superiore ai 200 miliardi di barili, se vi fosse un livello di sicurezza accettabile ed un adeguato flusso di investimenti. Con tali riserve non sarebbe difficile soddisfare l’incremento della domanda petrolifera dell’Asia e del mondo.