Da Annapolis promesse e speranze, in attesa di vedere fatti
Positive le prime reazioni alle conclusioni della conferenza voluta da Bush. Attesi e scontati i giudizi negativi di Teheran e di Hamas. Israeliani e palestinesi parlano di occasione da non perdere e garantiscono la volontà di andare avanti.
Beirut (AsiaNews) - Non una dichiarazione comune (Israele non l’ha voluta), ma un comune impegno ad intraprendere “da subito” un processo di pace che porti, entro la fine del prossimo anno, ad una pace tra israeliani e palestinesi e, di conseguenza, con il mondo arabo. E’ la conclusione raggiunta ad Annapolis, negli Usa, dalla conferenza voluta dal presidente George Bush. I tre principali protagonisti, lo stesso Bush, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ed il premier israeliano Ehud Olmert hanno ugualmente affermato che si tratta di una “occasione storica” e che impegneranno tutte le loro forze per arrivare ad un accordo di pace.
 
Con ironico disfattismo, Marwan Bishara, il principale analista politico di Al Jazeera, mai tenera con gli Stati Uniti, ha osservato: “ho udito da altri tre signori – il presidente Clinton, il presidente Arafat ed anche il primo ministro Rabin – gli stessi discorsi, esattamente allo stesso modo, 14 anni fa con, presumibilmente, la identica determinazione”.
 
Garbo a parte, è quanto sostiene Hamas, “solo parole”, ed afferma l’Iran con la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, per il quale Annapolis non porterà niente ai palestinesi e serve solo a “dare sostegno” al regime israeliano.
 
Quanto alle parti più direttamente interessate, Saeb Erekat, negoziatore palestinese, oggi ha parlato di “opportunità, che speriamo di non sprecare”, mentre Marc Regev, portavoce del Ministero degli esteri di Israele ha sostenuto che “la sfida reale è ciò che accadrà nelle settimane e nei mesi a venire, perché se fossero solo belle parole, sarebbe una tragedia”. Proprio da Israele, peraltro, si temono i maggiori ostacoli per la realizzazione delle promesse di Annapolis: lo stesso Olmert, nell’affermare il suo solene impegno, ha detto di non sapere se “basterà un anno”.
 
Positivo il giudizio da parte di Bush che ha impegnato il suo Paese a seguire da vicino e in certo modo guidare i passi che dovrebbero portare ala agognata pace.
 
Restati in qualche modo sullo sfondo, i 16 Paesi arabi presenti – in stragrande maggioranza senza rapporti diplomatici con Israele – da un lato rappresentano una sorta di garanzia per la serietà dell’impegno palestinese, dall’altro evidenziano il loro interesse a che questa volta il processo di pace vada avanti. Sul tavolo non c’è solo lo sbandierato futuro del popolo palestinese, ma i rapporti di forza con il mondo sciita guidato dall’Iran, il controllo sulle popolazioni oggetto di una martellante propagando antiamericana e, quindi, antigovernativa. Senza considerare il doppio interesse siriano, che da un lato mira a riavere le Alture del Golan, occupate da Israele nel 1967, dall’altro ad uscire dall’isolamento nel quale l’hanno posta l’alleanza con Teheran e le accuse di essere quanto meno il mandante degli omicidi politici avvenuti in Libano negli ultimi anni. E una Siria non più legata a filo doppio con l’Iran è sicuramente una chiave per la pace nell’intero Medio Oriente. Un primo caso potrebbe venire proprio da Beirut, con lo sblocco della elezione del presidente della Repubblica libanese. (PD)