Papa: la certezza della fede, fondamento della speranza cristiana
di Franco Pisano
Nella sua seconda enciclica Benedetto XVI afferma che né l’attuale “fede” nel progresso scientifico, né la contestazione di Dio basata sulle ingiustizia del mondo danno una vera risposta alla domanda dell’uomo su futuro. “Luoghi” di apprendimento e di esercizio della speranza sono la preghiera, l’agire, il soffrire e l’attesa per il Giudizio di Dio.

Città del Vaticano (AsiaNews) – “Il cielo non è vuoto” e “la vita non finisce nel vuoto”: la fede nell’esistenza di Dio è l’origine della speranza cristiana, che dà senso all’esistenza - di ognuno e di tutti insieme - e permette di guardare non solo con timore al Giudizio. Che può portare alla dannazione o alla salvezza, ma che può prevedere anche un tempo “di attesa”, il Purgatorio. E’ la speranza che dà senso alla storia dell’uomo, non la “fede” di oggi nel progresso scientifico, e che dà senso all’attesa di giustizia, che non può trovare risposta solo nell’uomo, come dimostrano le “grandi rivoluzioni”, che hanno portato morte e distruzione.

Si intitola “Spe Salvi” (Salvati nella speranza) la secondo enciclica di Benedetto XVI, firmata e resa pubblica oggi; 77 pagine nella edizione italiana per affrontare, dopo la virtù della caritas cui è stata dedicata la prima enciclica, quella della speranza. Opera teologica, densa di riferimenti a Scritture e teologi, ma anche a pensatori come Adorno, Marx e Dostoevski .

“La ‘redenzione’, la salvezza, secondo la fede cristiana – scrive il Papa nell’introduzione -  non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino” (n. 1). Gesù, infatti, “non era un combattente per una liberazione politica come Barabba o Bar-Kochba. Ciò che Gesù, morto in croce, aveva portato era qualcosa di totalmente diverso: l'incontro con il Signore di tutti i signori, l'incontro con il Dio vivente e così l'incontro con una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per questo trasformava dal di dentro la vita e il mondo”.

Oggi, però, si crede che la “redenzione” del genere umano verrà dal progresso, è la “fede nel progresso” : “l’attuale crisi della fede è soprattutto una crisi della speranza cristiana”. E “due categorie entrano sempre più al centro dell'idea di progresso: ragione e libertà. Il progresso è soprattutto un progresso nel crescente dominio della ragione e questa ragione viene considerata ovviamente un potere del bene e per il bene. Il progresso è il superamento di tutte le dipendenze – è progresso verso la libertà perfetta. Anche la libertà viene vista solo come promessa, nella quale l'uomo si realizza verso la sua pienezza. In ambedue i concetti – libertà e ragione – è presente un aspetto politico. Il regno della ragione, infatti, è atteso come la nuova condizione dell'umanità diventata totalmente libera” (n. 18).

Ma, nella realtà, le concretizzazioni di questo ideale, in particolare la rivoluzione francese e quella marxista, hanno mostrato il limite di questa speranza. Il marxismo, in particolare, ha lasciato “una distruzione desolante”. Marx  “ha dimenticato che l’uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l’uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l'economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: l'uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall'esterno creando condizioni economiche favorevoli”. (n. 21). Perché, “se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l'uomo e per il mondo” (n. 22). La verità è che “non è la scienza che redime l’uomo”, essa “può anche distruggere l’uomo e il mondo”, “l’uomo viene redento dall’amore” (n. 26).

Il fatto è che “l'uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze – più piccole o più grandi – diverse nei diversi periodi della sua vita. A volte può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno di altre speranze”. “Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l'uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere”. (n. 30).

La risposta è la “grande speranza che abbraccia l'universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l'essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanità nel suo insieme”. (n. 31).

Di questa speranza esistono, scrive il Papa, “luoghi” di apprendimento e di esercizio. Oltre alla preghiera, ci sono l’agire, il soffrire e l’attesa per il Giudizio di Dio. In particolare, per ciò che riguarda la sofferenza, “certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche. Sono tutti doveri sia della giustizia che dell'amore che rientrano nelle esigenze fondamentali dell'esistenza cristiana e di ogni vita veramente umana” (n. 36). Non possiamo, però, eliminarla.  E “proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell'amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l'oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine. Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l'uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l'unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore”. (n. 37). Per questo, “la misura dell'umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana”. (n. 38).

C’è, infine, il Giudizio. La fede in Cristo, ha sempre guardato “anche in avanti verso l'ora della giustizia che il Signore aveva ripetutamente preannunciato” e che “già dai primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita presente” (n. 41). “Nell'epoca moderna il pensiero del Giudizio finale sbiadisce: la fede cristiana viene individualizzata ed è orientata soprattutto verso la salvezza personale dell'anima; la riflessione sulla storia universale, invece, è in gran parte dominata dal pensiero del progresso”. (n. 42). Ed è cambiato lo stesso contenuto fondamentale dell'attesa del Giudizio,  a causa dell’ ateismo del XIX e del XX secolo che è, “secondo le sue radici e la sua finalità, un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale”. Un mondo di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, “non può essere l'opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. È in nome della morale che bisogna contestare questo Dio”. Ma, “se di fronte alla sofferenza di questo mondo la protesta contro Dio è comprensibile, la pretesa che l'umanità possa e debba fare ciò che nessun Dio fa né è in grado di fare, è presuntuosa ed intrinsecamente non vera. Che da tale premessa siano conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia non è un caso, ma è fondato nella falsità intrinseca di questa pretesa. Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza. Nessuno e niente risponde per la sofferenza dei secoli. Nessuno e niente garantisce che il cinismo del potere – sotto qualunque accattivante rivestimento ideologico si presenti – non continui a spadroneggiare nel mondo” (n. 42).

“La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr Ef 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L'immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un'immagine terrificante, ma un'immagine di speranza; per noi forse addirittura l'immagine decisiva della speranza”. “Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia”. (n. 44). Essa però “non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore”. (n. 44).

La risposta alla questione insita nell’affermazione viene data ricordando la parabola evangelica del ricco epulone, nella quale, però, Gesù “non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale”, ma “di una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora” (n. 44). In essa le anime “subiscono già una punizione, come dimostra la parabola del ricco epulone, o invece godono già di forme provvisorie di beatitudine. E infine non manca il pensiero che in questo stato siano possibili anche purificazioni e guarigioni, che rendono l'anima matura per la comunione con Dio. La Chiesa primitiva ha ripreso tali concezioni, dalle quali poi, nella Chiesa occidentale, si è sviluppata man mano la dottrina del purgatorio”.

Essa “rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore “.( n. 47).  E’ in nome dell’amore, infine, che “alle anime dei defunti… può essere dato « ristoro e refrigerio » mediante l'Eucaristia, la preghiera e l'elemosina. Che l'amore possa giungere fin nell'aldilà, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto oltre il confine della morte – questa è stata una convinzione fondamentale della cristianità attraverso tutti i secoli e resta anche oggi una confortante esperienza” (n. 48).

L’enciclica termina con una preghiera a “Maria, stella della speranza”: “per mezzo tuo, attraverso il tuo ‘sì’ la speranza dei millenni doveva divenire realtà, entrare in questo mondo e nella sua storia”.

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FOTO: CPP