Cina, attivista per i diritti umani costretto ai lavori forzati
Hu Jia, detenuto nel carceri cinesi con l’accusa di “sovversione contro lo Stato”, non può ricevere cure mediche né comunicare con la famiglia: le guardie gli sequestrano lettere e libri e proibiscono i colloqui con parenti e avvocato. Provvedimenti restrittivi anche nei confronti della moglie.

Pechino (AsiaNews) – Costretto a lavorare per sette ore al giorno sotto il sole cocente, nonostante la grave cirrosi epatica di cui soffre da tempo: è quanto deve affrontare l’attivista per i diritti umani Hu Jia, detenuto nelle carceri cinesi, al quale sono state inoltre confiscate le lettere destinate ai familiari e un libro sui diritti dei prigionieri speditogli dalla moglie.

Lo denuncia la Chinese Human Rights Defenders (Chrd), secondo la quale “le guardie carcerarie costringono Hu a ramazzare la sporco e i resti della prigione durante le ore più calde della giornata”. Il provvedimento nei suoi confronti è stato adottato dopo che egli ha denunciato “certe forme di punizione utilizzate nel carcere di Chaobai - dove egli è attualmente detenuto - in aperta violazione dei principi di base della dignità umana”. Le sue condizioni di salute restano “critiche” (la cirrosi epatica ne sta minando il fisico), per questo egli ha bisogno di "cure mediche specifiche e di assoluto risposo", entrambe negate da parte dai vertici del carcere.

Dallo scorso primo agosto tutte le lettere, a cadenza settimanale, che Hu Jia scrive alla famiglia vengono puntualmente confiscate dai responsabili della prigione di Chaobai. I secondini hanno anche scoperto e sequestrato un libro che l’attivista aveva ricevuto dalla moglie, nel quale si parla dei “diritti dei prigionieri”, mentre vi è stata imposta una “restrizione” alle visite dei parenti. La polizia cinese addetta alla sicurezza, che supervisiona le sporadiche visite concesse ai familiari di Hu, usa la possibilità di accesso al carcere come “arma di ricatto”: nel caso in cui i parenti decidano di denunciare soprusi e angherie, vi è la risposta degli agenti che bloccano ogni contatto con l’attivista. Nemmeno l’avvocato gode di libero accesso al carcere: dal 3 aprile scorso, quando è avvenuto l’ennesimo arresto ai danni di Hu, sono stati assai “sporadici” i momenti di confronto fra il detenuto e il suo legale. Per impedire l’accesso e le visite, i carcerieri avanzano motivazioni pretestuose, fra le quali non meglio specificate “regole di sicurezza interna” alla prigione.

La polizia ha infine riportato la moglie i figli di Hu nella loro casa di Pechino. Il 7 agosto scorso gli agenti l’avevano prelevata dalla loro abitazione, portandola prima nella prigione di Chaobai e poi in un hotel a Dalian, sotto il controllo delle forze di sicurezza. Pur facendo ritorno nella capitale, la donna è costretta agli arresti domiciliari ed è sottoposta a una continua sorveglianza.

Hu Jia è noto in tutta la Cina per il suo impegno contro l’Aids e per i diritti umani ed è in carcere con l’accusa di “sovversione contro lo Stato”; per lui si è mosso anche il Parlamento europeo, che all’inizio dell’anno ha "condannato con forza la detenzione” e ha chiesto “l’immediata liberazione di lui e di tutti i dissidenti detenuti per delitti d’opinione”.