Pechino prosegue arresti e condanne, i tibetani cercano nuovi modi di lotta
Le autorità riconoscono 55 condanne per le proteste di marzo e oltre 200 persone ancora in carcere, ma non ne indicano il destino. Intanto continuano gli arresti arbitrari dei monaci. A metà novembre i leader tibetani in esilio si incontrano in India, per discutere una nuova leadership politica e nuove azioni.

Pechino (AsiaNews/Agenzie) – La Cina prosegue condanne in processi a porte chiuse, censura e arresti contro i tibetani; intanto centinaia di  leader tibetani in esilio hanno deciso di incontrarsi dal 17 al 22 novembre nell’India settentrionale. Vogliono discutere una nuova linea verso la Cina e molti sono critici anche verso il Dalai Lama, dopo che la sua linea di protesta non violenta non ha dato esiti. Non ne contestano la leadership spirituale, ma propongono di individuare una nuova guida politica.

Baema Cewang, vicepresidente del governo cinese in Tibet, ha rivelato che sono 55 i tibetani finora condannati per le proteste dello scorso marzo a Lhasa. Secondo Cewang all’epoca la polizia ha arrestato 1.317 persone, di cui 1.115 sono state poi rilasciate e le altre processate. Non spiega per quali reati, con quali pene, né il destino degli altri 147 per i quali non vi è stata sentenza. E’ la prima ammissione ufficiale dallo scorso aprile, quando è stata annunciata la condanna di 30 persone per le proteste di marzo, con pene da 3 anni all’ergastolo, e ad ottobre di altre 14 persone. Nei mesi scorsi gruppi pro-Tibet hanno annunciato altre sentenze, non confermate da Pechino.

Il 10 marzo in Tibet polizia ed esercito hanno caricato i monaci che manifestavano pacificamente per commemorare le vittime della repressione cinese del 1959. Nei giorni successivi a Lhasa sono scese in piazza migliaia di persone e ci sono stati scontri con l’esercito, che ha stroncato nel sangue le proteste, con decine di morti e migliaia di arresti. Secondo gruppi tibetani in esilio sono tuttora in carcere oltre 1.000 tibetani, di molti si ignora persino dove sono detenuti. Pechino ha sempre parlato di circa 20 morti, tra cui diversi etnici Han.

La vicenda ha suscitato proteste in tutto il mondo, soprattutto in occasione del viaggio della torcia olimpica. Proprio le proteste mondiali hanno “spinto” Pechino ad aprire un tavolo di colloqui con una rappresentativa del Dalai Lama. Colloqui che proprio nei giorni scorsi il Dalai Lama ha qualificato “un fallimento”, per la constatazione che Pechino non ha intenzione di discutere qualsiasi concessione di maggiore autonomia alla regione, ma realizza “una crescente repressione” contro i monaci e chiunque si oppone.

Ieri è stato arrestato il monaco Jigme (nella foto), che nei mesi scorsi ha diffuso le notizie sulle violenze della polizia a marzo e in seguito. Oltre 70 poliziotti hanno circondato e poi invaso il monastero di Labrang, dove era il "pericoloso criminale". Non si conosce l’accusa.

Lo scorso agosto,  in un video poi posto su Youtube, Jigme ha descritto come sia stato portato via dalla polizia senza motivo, trattenuto per 2 mesi senza accuse con continui interrogatori e abusi, battuto fino a rimanere incosciente ed essere ricoverato 2 volte in ospedale. Da allora è stato latitante, sempre in movimento nello sconfinato altopiano del Tibet. Secondo conoscenti, ha deciso di tornare al suo monastero dopo che la polizia ha visitato la sua famiglia e ha assicurato che non lo avrebbe arrestato, se rimaneva richiuso nel monastero. Con l’inverno vicino, Jigme ha dato fiducia alle autorità cinesi.