Nepal, rifugiati bhutanesi chiedono al nuovo re la fine dell’esilio
di Kalpit Parajuli
Per oltre 120mila profughi l’incoronazione di re Jigme Khesar Namgyel alimenta la speranze per un possibile rientro in patria. Restano dubbi e perplessità sulle decisioni che prenderà il giovane sovrano. Attivisti avvertono che la monarchia è a rischio e minacciano una rivolta popolare.

Kathmandu (AsiaNews) – I rifugiati bhutanesi in Nepal guardano con speranza ma anche con qualche paura all’incoronazione del nuovo monarca del piccolo regno del Bhutan. Più di 120mila persone – cacciate dal precedente monarca – vivono in esilio nei campi profughi del Nepal. Il re le aveva espulse perchè considerate immigrati irregolari, considerata la loro appartenenza all'etnia nepalese. L'ascesa al trono del 28enne Jigme Khesar Namgyel, figlio di Jigme Singye Wangchuk, è vista come un segno di speranza per un possibile ritorno in patria.

S.B. Subba, presidente della Organizzazione per i diritti umani in Bhutan, sottolinea che l’elezione del nuovo monarca è fonte di “felicità” nei campi profughi in cui si assiste a una “rinascita della speranza”, ma è necessario “aspettare e vedere” quali decisioni prenderà il nuovo re, perché “la monarchia è la sola causa delle nostre sofferenze”. Egli ha ribadito che il re “potrà far breccia nel cuore e nella mente del popolo solo se permetterà ai cittadini in esilio di far ritorno a casa”.

Dubbi vengono invece manifestati da Teknath Rijal, uno dei leader della lotta a favore dei rifugiati: “Seguirò con attenzione le decisioni che prenderà il nuovo re – dice l’attivista – per capire se rivedrà la politica del padre. È arrivato il momento di affrontare tutte le questioni irrisolte”.

L’incoronazione del giovane re è stata seguita con interesse da televisioni e siti internet di tutto il mondo per lo sfarzo dei costumi e la magnificenza della cerimonia, mentre il Paese in festa accoglieva il nuovo sovrano. Esclusi dall’evento i rifugiati bhutanesi, che hanno trascorso gli ultimi 17 anni rinchiusi nei campi profughi allestiti dalle Nazioni Unite nell’est del Nepal. Essi appartengono in gran parte al gruppo etnico dei Lhotshampas, di origine nepalese, che tra il ’77 e l’85 hanno subito le politiche discriminatorie dell’autorità monarchica, la quale non ha mai concesso loro la cittadinanza bhutanese costringendoli all’esilio. “Se non prenderà di petto la questione – avverte Teknath Rijal – la monarchia sarà a rischio. Il re del Bhutan potrà subire lo stesso destino toccato in sorte al re del Nepal”, destituito dalla guerriglia maoista, mentre il Paese si è trasformato in una Repubblica democratica federale.

Più cauto il parere espresso da Vampa Rai, coordinatore del Comitato per il rimpatrio dei profughi, il quale auspica che “il nuovo, giovane e moderno re, educato a Oxford, possa agevolare il loro rientro e promuovere i valori della democrazia”.

Il nuovo corso in Bhutan è stato promosso da re Jigme Singye Wangchuk nel 2006, quando ha deciso di abdicare; egli rimane l’ideatore del nuovo processo democratico, in cui l’apertura verso l’esterno viene calibrata con attenzione per non smarrire l’identità e i valori spirituali. Il Paese è segnato da diversi problemi, fra i quali la situazione della popolazione giovanile, in cui è diffusa la criminalità, la disoccupazione e il consumo di droga. Al momento di lasciare il trono al figlio, re Wangchuk ha promesso, a partire dal 2008, di avviare il cambiamento verso una monarchia costituzionale e dar vita a un parlamento.

Il Bhutan, incastonato fra l’India  e la Cina, ha una popolazione di 2,3 milioni. Il buddismo è religione di stato ed è proibita l’espressione pubblica di ogni altra religione. I cristiani sono circa lo 0,5 della popolazione.