L’Onu interroga la Cina sui diritti umani, Pechino risponde sull’economia
Pechino nega qualsiasi violazione dei diritti e si trincera dietro i miglioramenti portati dallo sviluppo economico. Ma esperti affermano che, con la crisi finanziaria, sono venuti meno anche i pochi diritti riconosciuti ai lavoratori. Ora si attendono le raccomandazioni conclusive dei delegati.

Ginevra (AsiaNews/Agenzie) – La Cina non accetta l’accusa di violare i diritti umani, rivoltale da altri Stati durante la riunione della Commissione Onu sui Diritti Umani a Ginevra.

Nel dibattito, iniziato il 9 febbraio, Germania, Gran Bretagna, Australia, Svezia, Svizzera, Canada e Repubblica Ceca hanno sollevato problemi come le restrizioni della libertà religiosa in Tibet e nello Xinjiang, la censura, le persecuzioni contro gli attivisti democratici, i campi di rieducazione-tramite-lavoro, l’indipendenza dei giudici e lo Stato di diritto, il lavoro minorile e il crescente divario tra città e campagna.

Altri Stati, come Nigeria, Sudan e Sri Lanka, hanno manifestato “notevole apprezzamento per i grandi sforzi della Cina per migliorare i diritti umani e costruire una società armoniosa” e per il suo sviluppo economico.

Li Baodong, ambasciatore cinese all’Onu, ha tuttavia negato che nel Paese ci sia qualsiasi forma di censura o restrizioni per la libertà religiosa o che qualcuno sia perseguito per le sue opinioni. Ha espresso “rammarico” che Paesi come l’Australia abbiano sollevato questioni “molto politicizzate” come il Tibet e gli Uighuri. Ma non ha affrontato in modo specifico le questioni e i casi indicati.

Più in generale  Pechino, in un suo documento, ha insistito sui miglioramenti portati alla popolazione tramite lo sviluppo economico.

Ma anche su questo la Cina è molto criticata, specie per il trattamento inumano riservato ai migranti. Le recenti conquiste relative al nuovo contratto di lavoro, al salario minimo garantito e alla stabilità del posto di lavoro sono state travolte dalla crisi economica, con almeno 20 milioni di migranti che hanno perso il lavoro, molti senza nemmeno ricevere la liquidazione o gli ultimi mesi di salario.

Han Dongfang, sindacalista ex dissidente di piazza Tiananmen tra i massimi esperti cinesi sui diritti dei lavoratori, osserva che, a seguito della crisi, il nuovo contratto di lavoro, presentato come una vera rivoluzione, “è completamente morto, dopo un solo anno”. Nemmeno le autorità ne chiedono più il rispetto, preoccupate solo di limitare la chiusura delle fabbriche.

Ora il rapporto cinese è all’esame dei delegati di Nigeria, India e Canada, che si prevede possano formulare raccomandazioni entro oggi.