Per i profughi tamil che tornano a casa la vita è ancora una prigione a cielo aperto
di Melani Manel Perera
Nei villaggi del distretto di Mannar il mega progetto governativo Uthuru Wasanthaya non ha portato i cambiamenti promessi. Case diroccate, servizi inesistenti, limitazioni negli spostamenti ed una massiccia presenza dei militari.
Mannar (AsiaNews) - Il governo aveva promesso loro abitazioni, servizi, terra da coltivare ed una vita di nuovo normale dopo gli anni della guerra. Ma i profughi di alcuni villaggi nel distretto di Mannar, nel nord dello Sri Lanka, devono fare i conti oggi con una realtà ben diversa. Tornati nelle terre che avevano abbandonato nel 2007, nel mezzo degli scontri tra esercito e Tigri tamil, hanno trovato case ancora diroccate, campi impraticabili e una presenza massiccia dei militari. Mancano i servizi elementari e la situazione è talmente precaria che in villaggi come Kokkupadayan gli ottanta bambini della locale scuola elementare sono ancora costretti a studiare senza senza banchi e seggiole.
 
Con la fine del trentennale conflitto tra  l’esercito e la guerriglia del Liberation Tigers of Tamil Eelam, il governo di Colombo aveva lanciato il mega progetto Uthuru Wasanthaya (il risveglio del nord). Era la promessa di una nuova vita per gli abitanti di una delle aree più martoriate dalla guerra.
 
Il 30 aprile 2009, le prime 122 famiglie hanno fatto ritorno nelle loro terre di origine, il 9 giugno le hanno seguite altre che sono tornate a popolare i villaggi di Aripputhurai, Silawaturai, Bandaraweli, Pokkarni e tante piccole località del distretto di Mannar.
 
Un pescatore del villaggio di Aripputhurai racconta ad AsiaNews: “Possiamo rallegrarci di aver ritrovato la nostra terra e le nostre case in rovina. Ma non abbiamo altri motivi per gioire sebbene dicano che siamo un popolo liberato”. “Ci avevano promesso progetti per il sostentamento, ricostruzione e programmi di sviluppo - aggiunge un altro abitante del villaggio - ma hanno messo a posto solo i ponti e le strade”.
 
Nell’area, la popolazione vive una libertà vigilata. Ai pescatori è concesso di uscire in mare solo dalle 6 di mattina alle 6 di sera. “I 4mila acri di terra che coltivavamo prima di fuggire - spiega un contadino - ora sono sotto il controllo dei militari”.
 
P. Seemanpillai Jayabalan, parroco di Aripputhurai, afferma: “Viviamo come in una prigione a cielo aperto senza nessuna speranza di sviluppo per la popolazione. La gente ha perso le sue proprietà e molte case non sono riparabili”. Le ong non possono accedere alla zona, “ogni aiuto - spiega il sacerdote - deve passare attraverso la Rehabilitation Task Force del governo”.
 
I movimenti nella zona sono controllati da posti di controllo disseminati su tutte le strade. “I militari dicono che nell’area non c’è più il pericolo del Ltte - racconta p. Jayabalan - però la gente non può inoltrarsi liberamente nella giungla per raccogliere il legname che serve a riparare le case, c’è il divieto di accendere fuochi e ci sono ancora zone disseminate di mine”.
 
Chi ha bisogno di riparare un tetto o ricostruire intere mura della propria casa può fare affidamento solo sugli aiuti governativi: legna, tegole, teloni ed anche i rami degli alberi di cocco vengono consegnati dalla Rehabilitation Task Force e non è permesso di procurarseli in altro modo.
 
Fonti locali affermano che le forze di sicurezza vogliono appropriarsi dei 50 acri di terreno di proprietà della chiesa di Santa Maria a Mullikulam per costruire una base navale e che altri 100 acri verranno confiscati nella Musali Division per costruire una stazione di polizia. P. Jayabalan è sconcertato: “A cosa serve tutto ciò se le autorità non si prendono cura delle condizioni di vita della gente? Siamo impotenti e la nostra preoccupazione cresce ancora di più al pensiero dei nostri fratelli e sorelle che ancora vivono nei campi. I mesi di novembre e dicembre, con la stagione delle piogge più intense, sono sempre più vicini. Noi abbiamo vissuto nei campi profughi e sappiamo che nessuno potrà sopravvivere in posti come quelli”.