Pechino e Obama alla guerra dello yuan
La questione valutaria è uno dei temi più caldi nell’agenda della prossima visita ufficiale del leader americano in Cina. In piena crisi economica, infatti, non si può più ignorare la moneta cinese e i suoi flussi di gestione. Pechino apre alla rivalutazione, ma sganciata dal dollaro.

Pechino (AsiaNews) – L’incontro bilaterale fra Barack Obama e Hu Jintao si svolgerà dal 15 al 18 novembre prossimo nella capitale cinese. Nell’agenda dell’incontro sono presenti molti temi, ma al primo posto si trova lo sviluppo dei rapporti commerciali e la valutazione dello yuan renmibi, la moneta nazionale cinese da sempre “sganciata” dal Fondo monetario internazionale. Il governo americano, infatti, preme da tempo affinché Pechino acconsenta a far giudicare dall’organismo internazionale il reale valore della sua valuta.

E proprio ieri il governo cinese ha detto di essere pronto a permettere una rivalutazione dello yuan, dopo 18 mesi di stallo, ma a patto che questa avvenga con l’aggancio di altre monete e non soltanto del dollaro. L’apertura è contenuta nel terzo Rapporto annuale della Banca popolare cinese [la Banca centrale di Pechino], secondo cui “seguendo i principi di iniziativa, controllo e gradualismo – con riferimento al flusso internazionale di capitali e ai cambiamenti nelle valute maggiori – miglioreremo il meccanismo di scambio dello yuan”.

Le monete cartacee oggi usate (totalmente svincolate dalle quantità di metalli preziosi) hanno valore in quanto mezzo di pagamento stabile riconosciuto nell'economia di un certo Paese: la stabilità della moneta è garantita dal controllo sull'emissione da parte delle Banche centrali (la crescita dell'offerta di moneta deve essere infatti in linea con la crescita dell'economia, altrimenti eventuali eccessi si riproducono nel lungo periodo come inflazione), mentre il riconoscimento come mezzo di pagamento è garantito dalla legge.

Discorso diverso per il cambio di una moneta: in questo caso, entrano in gioco gli organismi monetari internazionali che dettano (o dovrebbero dettare) la linea di interscambio. In occasione del suo insediamento, nel gennaio 2009, la nuova amministrazione Usa aveva provocato la Cina: parlando in televisione, infatti, il Segretario del Tesoro Timothy Geithner aveva accusato Pechino di manipolare il cambio della sua moneta. Dopo le vibrate proteste di Zhongnanhai, è intervenuto Obama che – con una telefonata – ha di fatto sconfessato il suo ministro.

Le accuse di Geithner contro lo yuan sottovalutato avevano cominciato a provocare una tempesta economica e politica mondiale. Pressioni della nuova amministrazione americana per la rivalutazione dello yuan avrebbero certamente portato a un ulteriore indebolimento del dollaro, cosa che avrebbe rischiato di provocare nuovi sconquassi nell’economia globale. Una conseguenza che Pechino teme profondamente: al momento, infatti, i cinesi possiedono almeno 1.200 miliardi di dollari in obbligazioni americane, del Tesoro e non, su un totale di circa 2.000 miliardi di dollari di riserve.

Su queste riserve la Cina sta già di fatto pagando un prezzo salato, visto che il dollaro si sta svalutando rispetto a tutte le monete e soprattutto allo yuan. Ma una brusca rivalutazione dello yuan avrebbe alzato il prezzo oltre la soglia di sopportazione per la Cina. In altre parole Pechino, di fronte a una dura richiesta americana di rivalutazione, avrebbe potuto vendere titoli Usa, con conseguenze imprevedibili per l’economia mondiale.