Sacerdote coreano: la missione aiuto per avvicinarsi al modello di Cristo
di Matteo Choi Seok Kyoon
P. Paolo Cho Hae In, sacerdote dell’arcidiocesi di Uijeongbu racconta ad AsiaNews i suoi tre anni di missione in Cambogia.“Un missionario ha un ruolo di pontre fra i due popoli, quello della terra di missione e il suo e facendo così arricchisce di più la propria Chiesa”.

Seoul (AsiaNews) – Con oltre 690 missionari nel mondo, 313 solo in Asia, la Chiesa coreana è ormai un punto di riferimento per molte delle piccole e giovani comunità cattoliche del continente. In occasione della Gioranata dei missionari coreani all’estero, avvenuta lo scorso 1°ottobre a Seoul, AsiaNews ha intervistato p. Paolo Cho Hae In, sacerdote della diocesi di Uijeongbu, per tre anni missionario in Cambogia.

Ordinato sacerdote nel 1994, p. Cho chiede nel 2001 di andare in missione. La sua richiesta viene accolta dalla Congregazione dei missionari di Maryknoll e nel 2002 parte per la Cambogia. Fino al 2005 lavora insieme a laici preti e suore nel villaggio di An Long Kan An, nella periferia di Phom Penh. Ritornato in patria, p. Cho si occupa oggi del Centro di consultazione per lavoratori stranieri in Corea della diocesi di Uijeongbu.

Da prete diocesano, come vede la sua esperienza di missionario all’estero?

Dopo 6 anni passati come prete diocesano, sentivo il bisogno di rinnovare la mia vita sacerdotale, così è nato in me il desiderio di sperimentare un’esperienza missionaria all’estero.

I miei tre anni in Cambogia sono stati molti utili per la mia vita. Ho capito che un prete può crescere nella sua vocazione, accettando la sfida della missione in un ambiente diverso dal suo.           

C’è un motivo particolare che la spinta a scegliere la Cambogia come terra di Missione?

Ho chiesto di andare in un Paese dell’Asia, perché essendo anche io asiatico pensavo che avrei dato un contributo migliore alle persone con sentimenti e cultura simili alla mia. 

Grazie all’aiuto di p. Gerard Hammond della Congregazione dei missionari di Maryknoll, sono arrivato a Phnom Penh nel 2002. Qui ho passato i primi sei mesi a studiare la lingua Khmer in un istituto privato della capitale, iniziando a coinvolgermi nelle attività missionarie.

Qual’era la sua attività missionaria durante il suo soggiorno?

Davo una mano nella gestione dei programmi educativi per i bambini di una scuola del villaggio di An Long Kang An. La zona era molto povera e aveva un alto tasso di analfabetismo. Noi insegnavamo ai bambini l’alfabeto cambogiano, in modo da consentire loro di proseguire gli studi. Non sapendo bene la lingua io mi occupavo dell’aministrazione e della biblioteca della scuola e facevo giocare i bambini.

Cosa le è rimasto di più del popolo cambogiano?  

Gli occhi dei bambini, che sono veramente puri e non potrò mai dimenticarli. Il popolo cambogiano è ancora segnato dal regime di Pol Pot, in cui oltre 2 milioni di persone sono morte nei campi di sterminio, per considerati nemici del popolo. Le persone sono molto diffidenti e spesso si raccontano bugie a vicenda. Quella di mentire è una tendenza che la popolazione ha acquisito per sopravvivere al regime dei Khmer rossi e purtroppo la ferita è ancora aperta. Una volta ho fatto visita a una famiglia, in cui il padre era stato perseguitato dagli uomini di Pol Pot. A distanza di anni mormorava ancora parole senza senso ed stordito dal trauma.

Che difficoltà ha vissuto come missionario?

Appena arrivato in Cambogia, volevo diventare un tutt’uno con i cambogiani. Ma con il tempo mi sono reso conto che non sarei mai stato uguale a loro, perché nato e cresciuto in un ambiente diverso. Ho capito invece che devo riconoscere questa diversità ed accettarla con serenità. Lo stesso mi è accaduto con l’idea della povertà totale. Pur avendo il desiderio di farsi poveri, i missionari fanno spesso fatica a vivere la povertà radicale in modo concreto, proprio perché vivono in una struttura che non può privarsi di tutto.

Che consiglio darebbe ai preti diocesi interessati alla missione?

Anche se la mia esperienza di tre anni è poca, direi loro che ne vale la pena. Stando in Cambogia, ho potuto rivedere la mia di sacerdote con occhi nuovi, grazie alle sfide e alle tensioni che ho vissuto. La Chiesa cattolica coreana gode di una ambiente stabile e benestante, che in un certo senso offre poche occasioni per questo tipo di esperienze ai preti diocesani. Se vogliamo essere più vigili nella nostra vocazione, dovremmo provare a buttarci in queste sfide, anche andando all’estero come missionari. Vivere come sacerdote significa non solo vivere i sacramenti, ma anche avvicinarsi sempre di più al modello di Gesù, che ha vissuto per la gente e fra la gente, soprattutto povera. Un missionario ha un ruolo di pontre fra i due popoli, quello della terra di missione e il suo e facendo così arricchisce di più la propria Chiesa.