Roma (AsiaNews) – Provo a dimenticare quanto accaduto”, ma “non appena sto da solo inizio a pensare, mi tornano alla mente tutte le immagini di quello che ho vissuto lì. Fa male, mi sento scioccato, è impossibile descrivere quelle situazioni”. A parlare così è un cattolico iracheno, uno dei “fortunati” sopravvissuti all’attacco portato il 31 ottobre da uomini di al Qaeda alla chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso di Baghdad. Ha schegge di granata nella schiena e nelle gambe. Per altre 58 persone è andato peggio, hanno perso la vita: tra loro, 46 fedeli che erano andati a messa e i due sacerdoti che celebravano. Oltre 70 sono i feriti. Di questi, circa 37 (i casi più gravi) sono stati trasferiti in Francia lo scorso 8 novembre, altri 26, insieme con i loro familiari, sono stati ricoverati a Roma, dove hanno parlato con AsiaNews.
“Era domenica, la messa del pomeriggio era appena iniziata. Poco dopo la lettura del Vangelo, verso le 17,15, abbiamo iniziato a sentire rumori di una sparatoria fuori dalla chiesa. Don Tha’er, che celebrava la funzione, ha cercato di calmarci dicendo di pregare tutti insieme. Il rumore si è fatto più alto, poi abbiamo sentito una forte esplosione e i terroristi sono entrati nella chiesa – saranno stati cinque, sei in tutto – e hanno iniziato a sparare dappertutto”.
Ci ha chiesto di restare anonimo. “Per motivi di sicurezza”, spiega. Non una parola su quella che era la sua vita prima dell'attentato. Dice solo: “Ho sempre preso parte alle attività pastorali della chiesa, ero amico di entrambi i sacerdoti, don Tha'er e don Wassim». 32 anni il primo, 27 il secondo”, entrambi falciati dai colpi dei terroristi. “Io ero seduto al primo banco, come al solito, e appena hanno fatto irruzione mi sono buttato a terra per proteggermi. Don Tha’er mi ha chiamato e mi ha detto: ‘Prova a far entrare tutti in sagrestia’. Erano momenti difficili, perché gli attentatori sparavano ovunque. Stavo entrando insieme ad altri in sagrestia, quando ho visto non molto lontano una ragazza ferita al collo. Non sapevo cosa fare, se aiutarla o correre anch’io e mettermi in salvo”.
Doveva essere un'intervista. Ma alla prima domanda: “Hai voglia di parlare, di raccontare quanto accaduto?” è seguito un racconto-fiume. Impossibile da fermare. “Vedevo quella ragazza ferita. Ho deciso di andarla a prendere per portare dentro anche lei. L’ho presa e me la sono caricata sulle spalle, ma uno dei terroristi mi ha visto e ha gettato contro di noi una granata: la ragazza è morta e io sono rimasto a terra ferito. Mi sono finto morto. Mentre ero a terra ho visto don Tha’er che cercava di difendere i chierichetti: li ha abbracciati e coperti sotto l’abito talare, per proteggerli, come a volerli nascondere. Uno degli uomini l'ha aggredito, cercava di buttarlo giù, ma lui ha resistito ed è rimasto in piedi, e alla fine il terrorista lo ha ucciso. Sentivo le grida della gente, nella chiesa, che aveva paura, quando a un certo punto ho sentito una voce, non saprei dire chi fosse, urlare ai terroristi: ‘Noi moriamo, moriamo, va bene. Però viva la croce’. Chiunque fosse, è stato ucciso subito”.
I fatti di quella drammatica giornata sono ancora vivi e dolorosissimi nel suo ricordo, e in quello degli altri sopravvissuti. Fotogrammi nitidi fin nei particolari, impressi per sempre. Indelebili. “I terroristi non facevano che girare e sparare dappertutto. Quando uno di loro mi è passato accanto, ho visto che indossava una cintura esplosiva. Che avessero un piano era evidente. Ai lati dell’altare hanno messo due cecchini, altri due verso metà navata e uno sul piano superiore. Parlavano tra di loro con una radio, ripetendo che tutto stava andando come da progetto. La chiesa è stata scelta proprio per la sua struttura: è un corpo unico in cemento armato, con tre ingressi principali, due laterali e l’altare posto in fondo alla navata. Fuori, all’ingresso della chiesa, c’è una croce alta 49 metri, speculare alla profondità della chiesa. Dico che la scelta è ricaduta su Nostra Signora del Perpetuo Soccorso per come è costruita, perché le finestre si trovano solo in alto, verso il piano superiore. In questo modo tutte le esplosioni che ci sono state all’interno della chiesa hanno fatto ancora più danni, perché gli sbocchi per far diminuire gli effetti delle esplosioni sono a un'altezza molto superiore al normale. Ecco perché non facevano altro che gettare granate sulle persone. Quelli che sono usciti vivi dalla chiesa sono quelli che si sono finti morti, come me”.
“A un certo punto, quando ero a terra ferito, ho cercato di avvicinarmi all’altare e nascondermi dietro un muro. Arrivato lì, ho messo una salma sopra di me per nascondermi. Ciononostante riuscivo a sentire quello che si dicevano. Uno dei terroristi era rimasto ferito, e continuava a dire al suo comandante: ‘Sono ferito, faccio saltare la cintura esplosiva così diventerò martire, e vado subito in paradiso’. In un primo momento quello che doveva essere il comandante del gruppo gli ha detto di aspettare, che non era ancora il momento. Allora l'uomo ferito ha detto: ‘No, sto soffrendo troppo, sono stato colpito’. Il comandante gli ha dato il permesso, l'altro l'ha salutato dicendo: ‘Va bene, ci vediamo in paradiso’. E si è fatto esplodere. I suoi compagni allora hanno cominciato a gridarci: ‘Voi siete miscredenti, voi andrete all'inferno mentre noi andremo in paradiso, Dio è grande’”.
I segni di quei lunghi momenti di orrore sono ben visibili sul suo volto. Gli occhi neri tradiscono l'incredulità. La voce, a tratti, ancora trema: “Durante quelle cinque ore di assedio, i terroristi hanno reso la nostra chiesa una moschea. Gridavano le loro invocazioni islamiche, e hanno fatto per due volte la preghiera del tramonto, quella della sera e del pomeriggio. Dopo che l'uomo si è fatto saltare in aria, i suoi compagni sono come andati fuori di testa: sparavano dappertutto.
All'inizio non si sono resi conto che quasi 60 persone si erano nascoste nella sagrestia [tra cui il vicario episcopale, 75 anni, ferito]. Ma quando se ne sono accorti, hanno cercato di sfondare la porta di legno, senza successo: le persone infatti l'avevano bloccata dall'interno con degli armadi di metallo. Allora gli attentatori hanno iniziato a lanciare granate contro la porta, fino a quando non sono riusciti a creare un varco. A quel punto però sono tornati verso l'entrata principale, perché le forze irachene tentavano finalmente di fare irruzione. Io ho approfittato di quel momento e sono strisciato fino alla porta della sacrestia. Cercavo di farmi riconoscere, ma le persone all’interno non volevano aprirmi, per timore che fossi un terrorista. Poi una ragazza ha riconosciuto la mia voce, hanno socchiuso la porta e mi hanno tirato dentro. Sono rimasto con gli altri, bloccati nella sagrestia, e ho visto che molti erano feriti, e con le ultime esplosioni una ragazza e altri due erano morti”.
“Dovete sapere che la sagrestia ha anche un'altra porta, di ferro, che dà all'esterno, molto pesante e quindi difficile da aprire. Con un cellulare sono riuscito a chiamare un capo delle forze armate, che conoscevo, per chiedergli di aprire quella porta e farci scappare. Ma l'uomo mi ha detto che era impossibile, perché la porta era chiusa a chiave e avremmo dovuto aprirla noi. Alla fine della telefonata, mi ha detto che le forze armate stavano per entrare, e che sarebbe stato un intervento molto duro. Una ragazza e una bambina hanno ascoltato la conversazione e si sono spaventate, perché un attacco del genere avrebbe potuto distruggere la chiesa, con noi dentro. Così ho abbracciato la ragazza e la bambina, ci siamo buttati a terra e io ho fatto loro scudo con il mio corpo. La mezz'ora successiva è stata un inferno: un attacco terribile, con bombe e razzi: i terroristi rimasti hanno fatto esplodere le loro cinture non appena sono intervenuti i militari. È stata una carneficina. Quando finalmente i soldati ci hanno liberato ci hanno fatto uscire dalla porta principale”.
Sembra il racconto di un film, ma non lo è. Un racconto che lascia spazio alle domande che dovranno avere una risposta: “L'atteggiamento del governo e delle forze armate, è stato un po' strano. Se conosci la planimetria della chiesa, sai quali sono i punti deboli dai quali poter entrare per fare irruzione. Dove ci sono le finestre, in alto, c'è un tetto che circonda la chiesa largo un metro, un metro e mezzo. Sopra c'è un tetto più alto, dove puoi mettere i commando, e da lì poi entrare attraverso le finestre. Potevano andare e prenderli uno per uno [i terroristi]. Ma non è solo questo a essere insolito. Quando alcune persone che erano lì fuori – familiari, gente che lavorava nei dintorni – sono andate a chiedere ai soldati se avevano bisogno di una mano, si sono sentite rispondere: ‘Andate via, questi non sono affari vostri’. I militari poi sono intervenuti solo dopo cinque ore, quando i terroristi avevano ormai usato tutte le loro armi”.
“Don Tha'er, il sacerdote che celebrava la messa, è morto perché voleva salvare dei bambini. Insieme a don Wassim, che al momento dell'attacco era nel confessionale, hanno cercato di parlare con i terroristi per convincerli a lasciar andare la gente e i bambini, e prendere solo loro due come ostaggi. Hanno offerto la loro vita. Don Wassim, quando ha fatto per scendere dall'altare e andare verso i terroristi, è stato freddato da uno di loro. L'ultima frase di don Tha'er, morto davanti agli occhi di sua madre [sopravvissuta e ora ricoverata in Francia], è stata: “Gesù, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Di lui ricordo una frase, che ripeteva sempre a tutti quelli che vivevano momenti difficili della loro vita: “Sorridi perché Dio ti ama”».
“Ciò che io e gli altri abbiamo vissuto in quella chiesa, è stato un inferno. Provo a dimenticare quanto accaduto, a scherzare, a ridere con le persone. Ma non appena sto da solo inizio a pensare, mi tornano alla mente tutte le immagini di quello che ho vissuto lì. Fa male, mi sento scioccato, è impossibile descrivere quelle situazioni. Sono stati uccisi molti bambini e bambine nella chiesa. Un mio amico con sua moglie, la figlia e il padre sono stati uccisi. Lui chiedeva di essere ucciso, ma di lasciare la bambina viva. Non l'hanno ascoltato. C'era un bambino, o una bambina non so bene, che piangeva, i terroristi hanno chiesto alla madre di non farlo piangere. Non c'è riuscita, e quell'uomo ha detto: ‘Ok, lo faccio io’. E l'ha ammazzato”.
Si ferma, riprende fiato. Ricorda: “Prima di quest'inferno, avevo una vita normale. I nostri vicini erano musulmani, il rapporto con loro era tranquillo, ci salutavamo, parlavamo con loro e così via. Ma quando usciva fuori il discorso religioso, alzavano i toni, dicevano che noi cristiani non crediamo nel loro profeta che è ‘l'ultimo profeta’”. Il futuro? “Essere cristiano in Iraq significa vivere perseguitati per la tua fede. Noi vogliamo che il mondo lo sappia. Non ce la facciamo più a sopportare questa violenza”.