Testimoni da un Afghanistan che vuole cambiare

Milano (AsiaNews) – "Moltissimo resta da fare, ma un nuovo Afghanistan è nato". Lo dice Nabì, un pashtun che ha studiato, ma lo sostiene anche Fatah, che fa il muratore: "Kabul è un cantiere aperto" e anche Dinah, una fisioterapista, che quando esce mette ancora il burqa, ma che almeno può continuare a lavorare. Sono alcune voci di Kabul, raccontate sul numero di dicembre di "Mondo e Missione", il mensile del Pontificio istituto missioni estere (Pime), da Alberto Cairo, volontario italiano da 13 anni in Afghanistan, dove è responsabile  del Centro ortopedico della Croce rossa della capitale.

Ma ora "il mondo non si ridimentichi di noi", aggiunge Nabì. Nato in un'ottima famiglia, studiava legge, quando cominciò a doversi nascondere alla polizia comunista. Conosce il codice civile a menadito, ma le sue passioni sono storia e politica. Per anni ha dovuto nasconderle: sotto i comunisti, perché l'una e l'altra erano quelle volute dal partito, ai tempi dei mujahiddin perché la politica si faceva con le pallottole, e sotto i talebani, nemici dei libri e della scuola, era ancora peggio. Per 25 anni letture e discussioni sono state clandestine. Ora va in libreria, partecipa al gruppo "Amici dell'Afghanistan", ha il telefono cellulare e la parabola. Ma soprattutto può fare politica. Alle elezioni presidenziali ha fatto campagna per Karzai, anche se non nasconde qualche critica. "Dovrebbe battersi per una maggiore autonomia. Ma agli Usa chi può dire di no?".

Nel suo "il mondo non ci dimentichi", scrive Cairo, c'è il bisogno che il Paese ha dell'aiuto internazionale. "Un'inchiesta ha rivelato che più dell'80% degli afgani vuole i signori della guerra disarmati e senza potere", e "fino a che le armi non saranno loro tolte non c'è futuro per il Paese". "Fortunatamente – aggiunge – alcuni mullah coraggiosi lo gridano dalle moschee".

Anche per Fatah la situazione è migliore che in passato: a Kabul, nota, "la popolazione è triplicata, dicono che abbia superato i tre milioni".

Va meglio anche per le donne, almeno nella capitale, perché "a neppure 20 chilometri da Kabul è un altro mondo, dove il tempo sembra essersi fermato. Potrebbe essere venti o trent'anni fa". Dinah, racconta Cairo, "costretta a velarsi, relegata nel reparto femminile, era caduta in depressione. Il poter continuare a lavorare, seppure con limiti, è stata la sua salvezza. Ora esce con le amiche, frequenta corsi di inglese e di computer, ha un telefono cellulare e si trucca con cura".