“Stiamo cercando in ogni modo di far arrivare un messaggio all’interno del monastero – spiega – per dire loro di non opporre resistenza, perché la vita umana è preziosa e le misure repressive della Repubblica popolare cinese sono brutali. Ma finora purtroppo non ci siamo riusciti”.
“Il governo cinese – aggiunge Rimpoche – considera la religione un nemico e una minaccia al proprio potere. Così vogliono reprimere le istituzioni religiose, per frenare i loro insegnamenti. E si accaniscono con brutalità anche contro i monaci, che invece sono non-violenti e non assecondano alcuna politica”.
Non c’è modo di portare cibo ai monaci, che ora rischiano di morire di fame. Il monastero di Kirti è quello da cui è partito il monaco Phuntsok che si è auto-immolato il 16 marzo 2011 in coincidenza con il terzo anniversario della rivolta del 2008, repressa nel sangue dall’esercito cinese. All’epoca, Pechino sparò su una folla disarmata, provocando 13 morti nella zona e oltre 200 in tutto il Tibet. Secondo alcuni, se la situazione non dovesse cambiare c’è il rischio di una nuova rivolta di massa.