Ritorna il maoismo. Il Partito comunista cinese distrugge se stesso
di Willy Wo Lap-lam
Tutte le fazioni sono d’accordo nel reprimere ogni segno di dissenso che sfoci in una temuta “rivoluzione dei gelsomini”. Ma la repressione produrrà un allontanamento ulteriore del Paese dalla comunità internazionale. Un’analisi di uno dei più acuti conoscitori della realtà politica cinese.
Hong Kong (AsiaNews) - Da un punto di vista superficiale, gli avvenimenti degli ultimi mesi sembrano suggerire che le ali riformista e conservatrice del Partito comunista cinese (Pcc) siano impegnate in una lotta feroce su questioni fondamentali come la liberalizzazione politica e il trattamento dei dissidenti.
 
Da una parte, le unità pubbliche e di sicurezza statale hanno lanciato – sin dall’inizio delle “rivoluzioni colorate” in Medio Oriente e Africa settentrionale – la più importante repressione delle “forze destabilizzatrici” che si ricordi negli ultimi tempi. Alcuni membri del Politburo sono arrivati a chiedere il ritorno di quei valori di cui il defunto presidente Mao Zedong era portavoce. Dall’altra, si sono registrate nuove richieste di riforme politiche e tolleranza per l’espressione individuale da parte di alcuni presunti riformisti, fra cui il premier Wen Jiabao.
 
Pechino sembra aver deciso per una svolta conservatrice e persino quasi-maoista, il che impone la domanda: esistono ancora controlli incrociati e bilanciamento fra le diverse fazioni del Partito? Il Partito – vecchio di quasi 90 anni – ha sempre dichiarato che non esistono all’interno della propria leadership “roccaforti montuose”, un modo per definire cricche e blocchi di potere; la verità è che invece le fazioni con diverse politiche ed ideologie esistono sin dai primi giorni di Mao.
 
Prima di rispondere a questa domanda, è utile e istruttivo esaminare la repressione dei dissidenti in corso, senza precedenti per durezza di esecuzione. Sin dalla primavera, le autorità del Pcc hanno cercato di imporre un controllo quasi totale su ogni aspetto della vita nazionale: politica, ideologica e culturale. Oltre agli attivisti noti in tutto il mondo come l’artista Ai Weiwei, un gran numero di avvocati weiquan (“protettori dei diritti civili”), dissidenti e dirigenti di Organizzazioni non governative sono stati arrestati. Una dozzina di giornalisti ed editori di giornali relativamente liberali – come il Southern Metropolitan News di Guangzhou – sono stati repressi per aver mostrato simpatia per Ai o per Liu Xiaobo, vincitore del premio Nobel adesso in carcere. Si è intensificata anche l’azione della polizia contro le chiese non ufficiali. La scorsa domenica, alcuni rappresentanti della pubblica sicurezza di Pechino si sono scagliati contro i fedeli della chiesa protestante di Shouwang che, per la sesta domenica di fila, cercavano di organizzare un incontro in pubblico nell’angolo sud-orientale della capitale. Centinaia di fedeli sono stati arrestati. Ma è aumentato anche il numero degli arresti dei leader delle chiese “domestiche” delle province.
 
Per paura che i dissidenti potessero chiedere una versione cinese della “Rivoluzione dei gelsomini” che si è verificata in Tunisia all’inizio di quest’anno, la parola molihua (gelsomino) è stata bandita dai media stampati ed elettronici, così come da internet. Il Festival culturale internazionale del gelsomino che si svolge in Cina, previsto per questo mese nella provincia del Guangxi, è stato annullato. Per assicurarsi che le onde radio trasmettano soltanto materiale politicamente corretto e “armonioso”, l’Amministrazione statale per la radio, i film e la televisione ha chiesto alle stazioni nazionali di trasmettere in prima fascia programmi “patriottici” come le “opere rivoluzionarie” dei tempi della Rivoluzione culturale. Apparentemente, programmi “occidentalizzati” e “volgari” come i thriller e le storie di spie sono stati proscritti.
 
Ancora più significativo, buona parte della nazione è impegnata in una campagna febbrile tesa a resuscitare i valori maoisti. La metropoli occidentale di Chongqing, che ha iniziato tre anni fa questo revival maoista, ha chiesto ai quadri del Partito e agli studenti di passare almeno un mese l’anno a lavorare nei villaggi impoveriti, così da “imparare dalle masse”. I prigionieri delle carceri locali vengono rilasciati prima, se eccellono nella conoscenza dell’opera di Mao. Il vice presidente Xi Jinping, che è anche il capo della Scuola centrale del Partito, ha detto nella  cerimonia all’inizio del semestre che gli studenti dovrebbero passare più tempo a studiare “le opere maggiori” di Mao Zedong e altri canoni marxisti. Sforzi simili, ha detto Xi, aiuterebbero i dirigenti del futuro ad essere più “credibili politicamente” e più abili nell’usare “in maniera creativa i punti di vista e le prospettive marxiste per risolvere i problemi”.
 
Vi sono analisti i quali pensano che esista ancora una modica forma di controllo e bilancio interno alle fazioni del Pcc, e citano una serie di dichiarazioni rilasciate qualche tempo fa dal premier Wen Jiabao, divenuto il più liberale fra i 25 membri del Politburo. Wen è l’unico dirigente di alto grado ad aver insistito sul fatto che “non esiste via d’uscita” per il Paese se le riforme politiche rimangono congelate; ha anche ribadito che gli obiettivi raggiunti dalle riforme economiche saranno cancellati senza una liberalizzazione della vita politica. Il premier ha ripetuto più o meno gli stessi mantra durante le sue visite in Malaysia e Indonesia, avvenute il mese scorso. Ancora più significativo, durante l’incontro di un’ora con un politico di Hong Kong vicino a Pechino, Wu Kangmin, il premier si è scagliato contro due “forze politiche” che trattengono le riforme: “I rimasugli del feudalesimo e i rappresentanti del veleno residuo della Rivoluzione culturale”. Wen ha accusato coloro che sostengono queste forze di “rifiutarsi di dire la verità ed essere innamorati della menzogna”.
 
Tuttavia ci sono dei dubbi sul fatto che Wen possa essere caratterizzato come un rappresentante in buona fede dell’ala del Pcc tradizionalmente “di destra”, o liberale. Nonostante il suo sostegno retorico e reiterato nel tempo per i “valori universali” come quelli umani e lo stato di diritto, Wen non ha mai criticato i propri colleghi del Politburo per la repressione dei diritti civili dei dissidenti, degli attivisti o dei missionari cristiani. È forse per questo che un considerevole numero di intellettuali cinesi hanno definito il premier “il miglior attore di Cina”. Dopo tutto, la maggior parte degli associati e degli assistenti dei due maggiori leader liberali del Partito – gli ex segretari generali Hu Yaobang (1915-1989) e Zhao Ziyang (1919-2005) – sono stati messi ai margini della vita politica sin dalla repressione avvenuta in piazza Tiananmen 22 anni fa. I dirigenti liberali che ancora chiedono le riforme proposte un tempo da Hu e Zhao – personaggi come l’ex vice direttore del Dipartimento per l’organizzazione del Partito Li Rui, l’ex direttore del Quotidiano del Popolo Hu Jiwei e l’ex direttore dell’Amministrazione per la stampa statale e le pubblicazioni Du Daozheng – hanno tutti superato i 75 anni di età. Bao Tong - 78enne ex segretario politico di Zhao, che chiede senza tregua riforme politiche di stile occidentale – è ancora sotto sorveglianza della polizia 24 ore al giorno.
 
Esiste, ovviamente, ancora un buon numero di accademici e intellettuali che rischiano le molestie della polizia per parlare contro la direzione conservatrice in corso in questi giorni. L’economista Mao Yushi (che non ha rapporti di parentela con il presidente Mao) guida un think-tank privato: ha compiuto un velato attacco contro i dirigenti conservatori che “hanno riportato indietro l’orologio”. In un testo molto letto dal titolo “Riportare Mao Zedong alla sua vera persona”, che è circolato all’inizio di maggio su internet, Mao ha scritto che gli intellettuali cinesi dovrebbero avere il coraggio morale per “riconoscere e condannare i molti errori compiuti da Mao, che hanno rovinato la nazione”. Lo storico di Shanghai Xiao Gongqian ha avvertito che riportare i principi maoisti in auge potrebbe dare un colpo al corpo delle riforme e delle politiche di apertura: “C’è una stretta connessione fra le politiche e le ideologie della ‘cultura rossa’ e quelle ‘dell’estrema sinistra’: dobbiamo alzare la guardia contro il revival maoista”. Le credenziali liberali di intellettuali d’elite come Mao e Xiao non sono in dubbio; essi però non appartengono alla cricca comunista e hanno pochissime possibilità di influenzare le decisioni politiche ai massimi livelli.  
 
L’indicazione più chiara che la maggioranza assoluta dei maggiori leader cinesi abbiano scelto la fazione conservatrice, persino i valori quasi-maoisti, è venuta dall’alleanza apparente fra la Lega dei giovani comunisti del presidente Hu Jintao e i cripto-maoisti guidati da Bo Xilai, membro del Politburo e segretario del Partito a Chongqing. Insieme al vice presidente Xi, Bo è un membro anziano della potente “Cricca dei principini”, legata al tramonto degli anziani del Partito. Sin dal 2008, Bo ha portato avanti nella sua città le due campagne “colpire gli elementi neri” e “cantare la gloria dei rossi”. Nella politica cinese, per “neri” si intende la triade della mafia cinese mentre per “rossi” si intendono i precetti maoisti. All’inizio, Hu e i suoi colleghi della Lega si sono rifiutati di arrendersi al carismatico Bo. Alcuni fra gli aiutanti del presidente sono arrivati persino a sussurrare che Hu fosse scandalizzato dal machiavellico uso fatto da Bo della crociata “rossi-neri”, intesa come un modo per aumentare il proprio profilo nazionale e per brigare fino ad avere un seggio nella Commissione permanente del Politburo.
 
Tuttavia, dalla fine dello scorso anno, una serie di alti dirigenti comunisti hanno iniziato a farsi vedere a Chongqing e a magnificare le performance di Bo. Fra questi vi erano alcuni fra i “pesi massimi” della Commissione: il capo della propaganda Li Changchun; il vice presidente Xi; il capo dell’anti-corruzione He Guoqiang e il leader della sezione legge e ordine, Zhou Yongkang. Xi, presunto successore di Hu alla segreteria del Partito prima, e poi alla presidenza, ha detto che “la campagna contro le triadi è una buona cosa, perché ha ottenuto il sostegno popolare e ha portato sostegno e felicità alle masse”. Gli sguardi si sono fatti più attenti quando, lo scorso mese, persino il presidente dell’Assemblea nazionale del popolo Wu Bangguo e il membro del Politburo (incaricato dell’organizzazione) Li Yuanchao hanno compiuto un pellegrinaggio a Chongqing.
 
Il viaggio di Li è quello che ha ottenuto più attenzione, dati i suoi legami intimi con la Lega giovanile del presidente Hu. I media locali hanno riportato l’appoggio di Li all’operato di Bo: “Dobbiamo perseverare con la campagna contro le triadi, perché queste creano problemi nella società così come minano le basi dello Stato”. Li ha magnificato il cosiddetto “modello Chongqing” socio-economico e il suo sviluppo perché, ha detto, “le innovative politiche cittadine rappresentano un nuovo modo per risolvere i molti problemi della Cina”. È arrivato persino a sostenere il ritorno agli standard maoisti. Facendo riferimento al ritorno delle “canzoni rosse”, lo zar dell’Organizzazione ha detto: “Se non cantiamo queste canzoni, la nostra società potrebbe presto cambiare colore”. “Cambiare colore” è un termine con cui il Partito indica la possibilità che lo Stato socialista possa mutare in un “vassallo del capitalismo”. L’appoggio di Li a Bo indica la preoccupazione crescente nelle fazioni dominanti all’interno del Partito nei confronti delle voci di dissenso, e potrebbe segnalare il fatto che le due fazioni abbiano stretto un patto per sopprimere insieme quelle forze d’opposizione in crescita che starebbero minacciando il Paese.
 
In effetti, un consenso fermo sembra essere emerso fra le maggiori fazioni, fra cui la Lega, la fazione di Shanghai e la Cricca dei principini in modo che il “dominio perenne del Partito” possa resistere anche se Pechino non riesce a fermare il dissenso con efficacia. Non si è verificato alcun segno di discordia all’interno dell’Assemblea nazionale del popolo quando il Parlamento, dominato dal Partito, ha approvato all’inizio dell’anno un budget di 624,4 miliardi di yuan (circa 62 miliardi di euro) per “migliorare la stabilità socio-politica”. Per la prima volta nella storia del Partito, questi fondi hanno superato quelli investiti per l’Esercito di liberazione popolare. Inoltre, gli organi statali e di Partito incaricati dell’ideologia, propaganda e organizzazione hanno eliminato tutti gli ostacoli per creare norme armoniose e patriottiche, molte delle quali hanno chiari radici maoiste.
 
Questo non significa, ovviamente, che le molte fazioni del Partito abbiano fatto la pace. Sin dall’era di Deng Xiaoping, la mela della discordia fra i numerosi blocchi di potere è stata l’ideologia, in particolar modo su come la nazione avrebbe dovuto adottare il meccanismo di mercato o assorbire i capitali stranieri. Le battaglie fra le fazioni, tuttavia, sembrano ora apparentemente combattute su temi come personale e ideologia economica, non ideologia o politica. Per esempio, le varie fazioni si scontrano per vedere chi riesce a ottenere il maggior numero di seggi nel Politburo e nella Commissione centrale del Partito, organismi che si formeranno nel 18mo Congresso del Pcc previsto per l’ottobre del 2012. Altamente significativo è anche lo scontro fra i rivali per chi controllerà i lucrosi settori del business. La Fazione energetica, ad esempio, è in rapida crescita e spera di mantenere il proprio controllo monopolistico sulle conglomerate statali che controllano petrolio, gas, elettricità e nucleare.
 
Da un punto di vista superficiale, la pace fra le fazioni dovrebbe rendere il Partito più unito e meglio preparato per affrontare le dure sfide del 21mo secolo. Eppure, la morte della lotta fra bande – almeno fino a che si tratta di questioni ideologiche e politiche – porta con sé moltissimi rischi per il futuro politico della Cina. In particolare, data l’indefinita moratoria posta sulla liberalizzazione politica, la diminuzione di controlli e bilanciamento fra i poteri del Partito potrebbe allontanare ancora di più il regime dalle aspirazioni delle masse. Fino ad oggi, il risultato più tangibile del consenso all’interno del Politburo di Hu Jintao è l’eliminazione di ogni limite alla soppressione delle voci “disarmoniche” all’interno della comunità. Grazie all’uniformità di pensiero al vertice, chi decide e i quadri intermedi potrebbero divenire sempre meno sensibili rispetto agli errori compiuti da funzionari troppo zelanti, che fanno di tutto per fermare i dissidenti e i presunti simpatizzanti dell’Occidente. Una leadership molto unita – specialmente se impegnata a far rivivere i valori maoisti e nazionalistici – potrebbe inoltre essere meno disposta ad ascoltare le critiche dell’esterno.
 
Mentre la Cina si prepara a sedersi al tavolo dei maggiori leader della comunità internazionale, essa potrebbe scoprire che la propria struttura politica di stampo leninista non farà altro che allontanare ancora di più la nazione da quei valori universali su cui l’architettura universale è ancorata.
 
(Per gentile concessione di The Jamestown Foundation)