Nonostante le rassicurazioni del governo, in molte zone i cristiani temono ancora gli attacchi del Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), una delle più violente organizzazioni ultranazionaliste indù, e sono migrati in altre parti dell’India. “Molti non torneranno – spiega il sacerdote – finché ci sarà questo clima di paura e discriminazione, anche sociale ed economica”.
Oltre alle violenze e alle intimidazioni, i cristiani di Kandhamal devono fronteggiare anche un’altra forma di discriminazione: una giustizia sempre, o quasi, negata. Di recente, il Global Council of Indian Christians (Gcic) ha portato alla luce il caso di una donna di Girti (villaggio nel Kandhamal). La donna, rimasta vedova del 2008, solo a marzo 2011 ha potuto denunciare la morte del marito e della loro bambina di 2 anni. Durante i pogrom anticristiani, un gruppo di radicali indù prese d’assalto le 10 famiglie del villaggio: negli scontri, l’uomo venne torturato e poi gettato in un fosso insieme alla figlia. Il giorno successivo la moglie insieme ad altri del villaggio trovarono l’uomo e la figlia, che però morirono poco tempo dopo. All’epoca, la polizia non ha voluto registrare la denuncia della vedova. Proprio ieri Sajan K George, presidente nazionale del Gcic, ha dichiarato: “Il Global Council of Indian Christians, insieme con la società civile, è determinato a portare alla luce i martiri sepolti del Kandhamal”. Al momento, nessuno vive più nel villaggio di Girti: cinque famiglie (compresa quella della vedova) si sono spostate a Semingpadar, altre cinque in un altro villaggio.
(Ha collaborato Nirmala Carvalho)