Il futuro della “primavera araba”, frenato da povertà e fondamentalismo
di Samir Khalil Samir
In Egitto e altrove i nuovi tentativi democratici rischiano il fallimento a causa dell’enorme povertà, l’ignoranza, il fondamentalismo. L’occidente non può solo stare a guardare o fare da gendarme. Occorre intervenire nell’economia, l’educazione, in opere comuni fra cristiani e musulmani per mostrare che la convivenza è possibile

Roma (AsiaNews) - Molti media mostrano una forte preoccupazione e pessimismo nei confronti delle rivoluzioni arabe, mettendo in luce anche i pericoli che i cristiani corrono in questi Paesi. C’è timore che gruppi salafiti e integralisti islamici prendano il potere o influenzino la politica, mettendo a repentaglio la vita dei cristiani. La primavera araba interpella l’oriente e anche l’occidente.

 Una “primavera” con un ideale, ma senza partito
 
La mia impressione, guardando soprattutto all’Egitto, è che questa primavera è vera, reale e mostra che un desiderio di cambiamento verso democrazia e libertà è diffuso nella popolazione.
 
In Siria e in Libia vediamo perfino che vi sono persone pronte a dare la vita per questo ideale. È poi incontestabile il fatto che questi movimenti hanno una base locale, non sono manipolati dall’estero.
 
Ma vi è un altro aspetto: questi movimenti, non essendo un partito organizzato, ma piuttosto un ideale di vita, una volta espresso il loro grido, non sono capaci di trasformare questo desiderio in un progetto politico. Allora interviene il movimento contrario, di coloro che non vogliono un cambiamento radicale, o alcun cambiamento tout court.
 
Il primo rischio della primavera araba è che i partiti organizzati vincano le elezioni: il partito che era al potere con Mubarak; o i partiti islamici, soprattutto i Fratelli musulmani, che hanno cambiato nome e sono stati riconosciuti; oppure il nuovo partito, riconosciuto, quello dei salafiti, il movimento islamico più estremista.
 
La rivoluzione di piazza Tahrir è reale: cristiani e musulmani hanno lavorato mano nella mano e questo è il desiderio della maggioranza della popolazione. Ma come trasformare questo desiderio in una politica statale?
Wael Faruk, nell’articolo pubblicato giorni fa su AsiaNews (v. La libertà è il più grande nemico del fondamentalismo islamico) sottolinea bene che il primo problema è quello economico, ed è vero. Del resto, la prima motivazione del movimento giovanile era proprio l’economia. Se vogliamo incoraggiare il movimento democratico, occorre che gli altri Paesi - quelli arabi del Golfo e gli occidentali - investano in Egitto, per incoraggiare la ripresa economica, sostenendo gli investimenti e il turismo (prima fonte degli introiti in Egitto)  
 
Imparare la vera libertà, senza radicalismo o fanatismo religioso
 
L’altro problema contro cui il movimento si deve scontrare è il fondamentalismo. E’ pure vero che il nemico del fondamentalismo è la libertà, purché essa sia diffusa in tutti gli aspetti: libertà di distaccarsi dalle norme (senza essere contro le leggi); libertà di vivere la propria fede come uno la intende; di esprimere le proprie opinioni senza essere teleguidato. Ma io temo che per alcuni anni noi dovremo passare per una crisi, perché in Egitto non c’è abitudine e esperienza nel vivere il rispetto e la libertà.
 
Al contrario, vi è un forte movimento radicale, sostenuto dall’esterno. Tutte le decisioni che in Egitto vanno nel senso di un islam radicale, sono state sostenute, finanziate, incoraggiate da Paesi come l’Arabia saudita o da personalità integraliste. Lo stesso movimento dei salafiti, si stende ben al di là dell’Egitto: è presente in Siria, Giordania, Tunisia, proprio a partire dagli inizi della rivoluzione araba. Essi approfittano dei problemi vissuti dalla gente per riprendere forza. Erano oppressi dai vari governi dittatoriali e adesso sono riapparsi. Spesso essi riemergono contrastando i cristiani. Dove non ci sono cristiani, riappaiono in lotta contro tendenze islamiche liberali o laiciste. In Egitto, i salafiti hanno aggredito non solo chiese cristiane, ma anche centri sufi (islam mistico), o personalità islamiche moderate.
 
Da alcuni anni, nel Paese la cosa più facile è eccitare i radicali musulmani contro i cristiani. Uno degli argomenti che negli ultimi decenni funziona sempre sono le pretese conversioni all’islam. Quando attaccano una chiesa spesso usano questo pretesto, dicendo: “In questa chiesa è tenuta prigioniera una donna che si è fatta musulmana. I monaci, il clero le impediscono di vivere la sua vita”.
 
Per mesi e mesi in Egitto si è fatto un gran chiasso su due donne, Wafa’ Costantine e Camelia Shehata, che i salafiti dicono essersi convertite all’islam e che i cristiani tengono prigioniere in due monasteri[1]. Ma proprio nel caso di cui sopra, loro stesse si sono dichiarate cristiane, eppure, malgrado ciò, i salafiti continuano ad accusare i cristiani di tenerle prigioniere. Adesso hanno trovato una terza donna che si sarebbe convertita e sarebbe tenuta “prigioniera” nella chiesa di Imbaba al Cairo … e hanno attaccato la chiesa!
 
Di fatto, sono tutti pretesti che alimentano il fanatismo religioso nella popolazione. E temo che questo radicalismo non scomparirà così presto. Forse sarà sempre minoranza, ma le sofferenze per i cristiani ci sono e sono pesanti.
 
Questa vera liberta chiederà tempo e fatica
 
Non vi è una soluzione facile e immediata. Toccherebbe ai musulmani intervenire e dire: basta, ognuno ha diritto a seguire la religione che vuole, cambiare quando vuole e nessuno ha diritto a farne un problema politico.
Purtroppo, anche il ruolo degli imam per educare la popolazione è troppo debole. Finché c’è stato un regime autoritario, questo ha avuto la possibilità di ordinare che non vi siano più contese, obbligando al rispetto fino a controllare le prediche degli imam al venerdì in moschea. Ma la libertà ha i suoi rischi e suppone un cammino.
 
Un amico musulmano – una persona colta del Libano – mi faceva notare che anche in Europa e in America vi sono state rivoluzioni e queste sono costate tante vite. “Noi – ha detto – stiamo facendo ora la nostra rivoluzione, con più di due secoli di ritardo e costerà anche a noi tante vite”.
 
La tragedia in questi ultimi 50 anni è che la gente non ha imparato a vivere la democrazia. Questa generazione non ha un modello di Paese che sappia vivere la libertà insieme all’uguaglianza e all’apertura verso tutti. In questa situazione, di solito chi paga sono le minoranze.
 
E l’Egitto non è il caso più difficile: la Siria sta vivendo problemi molto più gravi, anche se finora questi problemi non hanno toccato i cristiani.
Va detto che in Egitto anche la minoranza cristiana soffre talvolta di fondamentalismo, anche se non è abituata a reagire con violenza. C’è però l’invito al martirio: nelle comunità si canta spesso un inno tradizionale che dice “Noi siamo una chiesa martire”…
 
Ma per fortuna c’è anche una forte tradizione nel Paese che dice “noi siamo un unico popolo”, musulmani e cristiani. Secondo questa tradizione, i musulmani sono visti come dei copti che hanno cambiato religione. Tutto questo rafforza il senso di identità di popolo, perché l’Egitto (a differenza di altri Paesi arabi) non è un amalgamo di popoli e tribù diverse, ma è un popolo unico in due religioni. Ma tale sentimento è combattuto da movimenti fanatici.
 
Le cause del ricorso alla religione: povertà e ignoranza
 
Se questa è la situazione, io credo che per garantire un futuro alla primavera araba, occorre cercare di affrontare le cause profonde che l’hanno generata.
La prima causa è l’economia e di questo ho già detto.
 
La seconda causa è l’ignoranza, che rende più sensibili agli argomenti estremisti, e ai discorsi religiosi degli imam, perché offrono una sicurezza legata alla religione. Più uno è colto, più comprende che la religione non è tutto, che la religione deve comprendere anche il vivere insieme, che essa include anche la libertà di scelta, fosse pure scegliere l’errore. Sono concetti difficili ad ammettere se uno non ha una certa libertà di pensiero e di riflessione.
 
In Egitto vi è una parte della popolazione che è ben educata, ma la maggioranza non lo è affatto e negli ultimi decenni abbiamo assistito a una regressione dell’educazione.
 
La diffusione dell’educazione non è andata di pari passo con la sua profondità. Anche perché tutto il sistema dalla rivoluzione [di Nasser – ndr] in poi, è andato nel senso di accettare un basso livello: chi arriva fino al 50% dell’esame finale, è ammesso per essere professore o insegnante[2].
 
L’altra linea di educazione sono le chiese e le moschee. Su questo aspetto il livello non è migliore, essendovi fondamentalismo sia fra i cristiani che fra i musulmani. Il punto è che nelle chiese, il “fondamentalismo cristiano” non si traduce in attacchi violenti. Invece, nella tradizione islamica esso può tradursi in violenza in nome di Dio, per difendere la vera religione.
 
C’è un sito islamico intitolato “La vera religione”. Ogni tanto l’ho visitato ed è di un incredibile fanatismo e di lotta contro il Vangelo, contro il Cristo creduto dai cristiani, una specie di apologetica contraria al cristianesimo. Con loro ho cercato di dialogare talvolta, sottolineando che ognuno ha i suoi dogmi e che sono indimostrabili, ma purtroppo tutta l’educazione in Egitto è basata sul principio “io ho la verità e devo fare di tutto per piegarti”. Fra i cristiani però questo non porta alla costrizione verso l’altro. Fra i musulmani invece è possibile la strada della violenza per costringere a quella che io penso essere la verità, accusando l’altro di essere un “miscredente (kāfir)”.
Vi è prima la violenza verbale, poi quella fisica.
 
Importanza dell’educazione
 
Infine occorre attuare un’educazione alle regole della vita democratica, con il diritto a dissentire. Occorre notare che tutte le nostre rivoluzioni sono state a carattere militare, per cui abbiamo disimparato il rispetto per l’opinione dell’altro. Un intellettuale musulmano, Tarek Heggy, ha detto che ci vorranno almeno due decenni per re-imparare la democrazia. Occorre pazienza, ma occorre anche lottare per cambiare.
 
Il movimento giovanile ha chiaro tutti questi valori ed esigenze, ma dovrebbe focalizzarsi per combattere queste cause: lavoro per tutti, l’educazione per tutti a un livello più alto; imparare a praticare la democrazia in famiglia, in chiesa, in moschea[3], in politica …
 
E questo tocca pure l’occidente: nel modo con cui si è mosso, sta rispondendo a queste esigenze? Credo proprio di no, anzi, per nulla. All’educazione non ci pensano nemmeno e invece dovrebbero aiutarci per alzare il livello. E riguardo all’economia, non mi sembra che essi stiano aiutando. Per ricostruire l’economia occorre un progetto che si basi anche sulla generosità. Invece i Paesi ricchi stanno lavorando molto per i propri profitti, ma usano poca generosità. I loro investimenti vanno tutti a beneficio di una piccola parte, la classe dirigente o imprenditoriale. Ma il frutto non arriva al popolo.
 
Questo è proprio uno dei motivi che ha scatenato la rivolta: nel nostro Paese c’è una classe che è divenuta ricchissima. Come mai? Come è possibile che il dislivello fra ricchi e poveri sia calcolabile fino a 100 volte? In un Paese europeo la differenza fra ricchi e poveri è magari di 1 a 20. Questa distanza enorme che vediamo da noi è dovuta alla corruzione.
 
L’occidente e gli altri Paesi dovrebbero pensare che è nel loro interesse sostenere l’uguaglianza, la democrazia, l’educazione: sono valori che non daranno frutti immediati, ma a lungo termine, magari in 20 anni. Anche aiutare i poveri è in funzione dell’economia perché permette più consumi. Se tutti sono poveri, non c’è nulla da comprare. Se la gente è povera, non ci sarà l’incentivo a inviare i propri figli a scuola, per farli subito lavorare.
Per tutto ciò, l’occidente non può accontentarsi di essere solo un gendarme verso la Siria, la Libia, il Bahrain, deve trovare delle vie per sostenere l’economia, l’educazione, la democrazia.
 
Anche la pace è la strada per il benessere. L’Egitto, già da tempo, ha scelto la via della pace con Israele, perché è più conveniente per il bene della popolazione. In altri Paesi arabi c’è ancora troppa voglia di guerra, l’orgoglio di voler “vendicarsi” del nemico. E poi, che guadagno c’è nella vendetta? Non c’è pace senza giustizia, diceva papa Giovanni Paolo; aggiungeva però: Non c’è giustizia senza perdono!
 
Progetti comuni per musulmani e cristiani
 
La preoccupazione dei cristiani è poi come disinnescare il fanatismo religioso. Vero è che qua e là appare un pensiero nuovo. L’imam Usama al-Qusi, che ha guidato i giovani sulla Piazza Tahrir, ha fatto decine di discorsi dicendo che non è necessario avere un sistema islamico. Vi sono invece regole precise sull’economia, sulla partecipazione, sulla diplomazia, ecc. E conclude che non è necessario essere musulmani per guidare un Paese. Questo tipo di ragionamento calmo, tranquillo, concreto, è quello che ci vuole per educarci alla convivenza.
 
Un altro elemento importante è lanciare dei progetti comuni fra cristiani e musulmani. Un esempio: gli ospedali in Egitto sono evitati da tutti per la bassa qualità del servizio. D’altra parte, gli infermieri prendono una paga così bassa che per ogni servizio – pur legato al loro dovere – chiedono una bustarella. Da questo punto di vista, provare a varare impegni a favore della popolazione nella salute è un strada di educazione molto importante: è questo che rende i Fratelli musulmani molto accetti in alcuni quartieri del Cairo. Ma anche le suore cristiane godono di una grande stima a causa del loro impegno nelle scuole o negli ospedali.
 
Varare opere comuni, fra cristiani e musulmani, è la via per sperimentare che la convivenza è piacevole e utile a tutti.
 
  
 
[1] Nella questione vi è un fondamento in re: le due donne, volendo rompere coi loro mariti, si sono fatte musulmane. Ciò è avvenuto perché Shenouda III ha reso impossibile il divorzio nelle coppie cristiane copte, possibile invece nelle chiese ortodosse.
[2] Il sistema egiziano, da 50 anni e più, ha imposto un sistema unico di esame finale per entrare all’università. Il più alto livello deve andare alla medicina; dopo viene la farmacia; dopo viene la fisica;… l’ultimo livello è fra professori e commercianti. Queste persone di basso livello sono anche i meno pagati. In tal modo l’educazione è rovinata.
[3] Anche la Chiesa copta è fortemente gerarchica, più della Chiesa cattolica e manca di dialogo. Un esempio di questa struttura gerarchica asfissiante può essere la questione dei pellegrinaggi a Gerusalemme. Da diversi anni il patriarca Shenouda III proibisce ai fedeli di andare a Gerusalemme. La decisione è di tipo politico, per esprimere la propria critica verso Israele. Il problema è che chiunque osa andare a Gerusalemme – e ve ne sono molti che volgiono andarvi per motivi religiosi - viene addirittura scomunicato! I fedeli allora inventano modi per attutire questo provvedimento: cambiano nome; al loro ritorno pubblicano richieste di perdono sui giornali; ecc… Tutto questo mostra che non abbiamo allenamento alla libertà e al dialogo