Missionario in Thailandia, per costruire ponti fra fedi e culture
di Weena Kowitwanij
È l’opera di p. Anthony Le Duc, sacerdote statunitense di origini vietnamite, in una parrocchia nel nord-est del Paese. La cura di malati di Hiv e bambini orfani, per colmare il divario sociale. Messe e liturgie in molte lingue, perché “siamo una piccola comunità” che è “parte della Chiesa universale”.
Bangkok (AsiaNews) – Promuovere la fede cristiana e costruire ponti fra persone di religione, cultura e sensibilità diverse, con una particolare attenzione ai malati di Hiv e ai bambini orfani della comunità. È la missione di p. Anthony Le Duc, sacerdote statunitense di origini vietnamite, chiamato a evangelizzare l’unica parrocchia della provincia di Nongbua Lamphu, diocesi di Udon Thani, nel nord-est della Thailandia. Il sacerdote è stato ordinato nel 2006 a Chicago nella Società del Verbo Divino – i “Verbiti” – (S.V.D.), dopo un periodo di studi alla Berkeley University dove si è laureato e dove è nata la vocazione a Cristo e alla missione della Chiesa universale.

P. Anthony racconta la sua storia al mensile cattolico thai Udomsarn, partendo dai natali “in Vietnam” e al trasferimento, insieme alla famiglia in giovane età, negli Stati Uniti, la patria adottiva. Da piccolo sognava di diventare astronauta, scrittore, psicologo e ancora dottore; poi, nel 1994, durante l’università, la scoperta della vocazione e l’ingresso nei Verbiti. “Di norma – racconta – diventare missionario non è una delle principali aspirazioni dei giovani”. Comprare l’ultimo modello di cellulare, aggiunge, è diventato più importante che partecipare alla messa della domenica. E quando ha confessato a familiari e amici che sarebbe andato in Thailandia per annunciare la Parola di Dio, si è sentito rispondere: “Come potrai imparare un dialetto locale così strano?”.

Tuttavia, la forza dell’opera di Dio vince ostacoli e difficoltà: “Ho iniziato a studiare la lingua thai – continua p. Anthony – e più familiarizzavo con la lingua, più cresceva l’ammirazione per la cultura thai”. Egli descrive la comunità della parrocchia di San Michele arcangelo a Nongbua Lamphu con parole semplici, ma cariche di affetto: “la gran parte degli anziani restano a casa, a prendersi cura dei nipoti mentre i genitori lavorano a Bangkok. Siamo una piccola comunità cattolica, in mezzo a una maggioranza di buddisti”, una piccola parte “della Chiesa universale”.

La gran parte del lavoro, spiega il sacerdote, consiste nel far convivere persone di fede diversa e colmare il divario culturale e sociale che causa incomprensione e divisioni. In quest’ottica rientra anche l’opera fra i malati di Hiv, che viene condotta con il resto della comunità. Poi vi sono gli orfani, che giocano insieme agli altri bimbi per diventare “segni concreti – spiega p. Anthony – della solidarietà e dell’accettazione reciproca fra parrocchiani”.

Il sacerdote conclude il racconto ricordando le parole di mons. Joseph Luechai Thatwisai, vescovo della diocesi di Udon Thani: “la chiesa di San Michele Arcangelo è davvero una comunità ‘internazionale’ perché, nelle celebrazioni, ciascuno testimonia la diversità che contraddistingue la nostra realtà, che consiste di varie culture, nazionalità e linguaggi”. Tra i molti esempi, le celebrazioni liturgiche in “inglese, vietnamita, indiano, tagalog, dialetto locale del nord-est e dialetto della Thailandia centrale”.