Sri Lanka, per il 2012 risolvere il “problema Tamil”
di Terence Fernando
Circa 200mila sfollati vivono ancora nei campi profughi nel nord, mentre la popolazione singalese del sud è convinta che tutto sia tornato alla normalità. Il governo organizza viaggi per visitare le zone di guerra, ma mostra solo i monumenti che celebrano la vittoria dell’esercito.
Colombo (AsiaNews) – A quasi tre anni dalla fine del trentennale conflitto etnico, lo Sri Lanka non ha ancora risolto il cosiddetto “problema Tamil”. Sono i circa 200mila sfollati (Internally Displaced People, Idps) tamil, che nel nord del Paese vivono ancora nei campi profughi, sorvegliati a vista dai militari e senza possibilità di tornare nelle loro case e nei loro villaggi. Intanto la popolazione singalese del sud – dove non è arrivata neppure l’eco dei bombardamenti – sembra inconsapevole delle atrocità della guerra e organizza viaggi per visitare le zone colpite. La testimonianza di coraggio e speranza di un sacerdote in visita ai campi profughi di Cheddikulam.

La maggior parte dei singalesi del sud sostiene che in Sri Lanka non esiste il cosiddetto “problema Tamil”. A quasi tre anni dalla fine del conflitto, le autorità dicono loro che gli sfollati sono tornati alla normalità. Ma questo non è vero. Molte delle vittime della guerra non hanno mai avuto l’opportunità di tornare nelle loro case, nelle loro terre o nei loro villaggi. Invece, sono state costrette ad andare in aree di proprietà del governo e delle forze armate.

Solo pochi singalesi conoscono la verità. Dopo il 2009, centinaia di persone hanno viaggiato dal sud al nord per vedere “le terre conquistate” dal vittorioso esercito singalese. Ma la guerra è un crimine. Gli abitanti del sud non hanno sentito le esplosioni e i bombardamenti, non hanno vissuto le atrocità della guerra. Non hanno visto madri scappare via con i figli piccoli per salvare loro la vita, mentre vedevano i loro mariti e figli più grandi fatti a pezzi davanti ai loro occhi. Non hanno vissuto per giorni e giorni chiusi dentro un bunker, col timore di morire da un momento all’altro, pensando solo a come trovare da mangiare e da bere per i loro piccoli. Quando sono arrivati al nord, tutto quello che i singalesi hanno visto sono i monumenti che celebrano la vittoria dell’esercito.

Di recente, sono stato a Cheddikulam per celebrare la messa per i fratelli e le sorelle tamil che ancora “vivono” nei campi profughi. Doveva accompagnarmi p. Douglas Milton, un mio amico della diocesi di Mannar. A causa della grande pioggia, p. Douglas è arrivato con 30 minuti di ritardo. Mi ha colpito molto perché ha iniziato la funzione dicendo ai fedeli: “Vi chiedo scusa per questo ritardo. Ho incontrato molta pioggia sul mio cammino”. Sembrano parole semplici. Invece, dipingono la dignità, l’uguaglianza, il rispetto e l’amore con cui egli tratta questo popolo solo e oppresso. Chiedendo scusa, il mio amico ha portato loro speranza, coraggio e forza. Si è rivolto a loro con lo stesso amore, gentilezza e compassione che il nostro Signore Gesù ha avuto per la sua gente.