Si parla di interessi petroliferi dietro il rapimento del vescovo

Roma (AsiaNews) – Ambienti petroliferi vedono motivi politici ed economici legati all' "oro nero" dietro al rapimento del vescovo di Mossul. Il rapimento, si sostiene, non aveva ragioni "religiose". Lo ha escluso lo stesso prelato in un'intervista rilasciata ad AsiaNews. Non aveva come movente nemmeno un riscatto in denaro che, a quanto afferma il Vaticano e la nunziatura di Baghdad, non è stato pagato. Il rapimento più anomalo della storia del nuovo Iraq, pur concluso, ha portato a un frutto: affermare che la zona di Mossul è insicura. Su queste basi, nel mondo petrolifero si fanno ipotesi che il rapimento del vescovo è legato al mercato dell'oro nero e alla prossima apertura dell'oleodotto di Kirkuk, a poco più di cento chilometri da Mossul. A causa di questo rapimento si rischia infatti di procrastinare ancora una volta la riapertura dell'oleodotto.

Il 16 gennaio il governo iracheno aveva annunciato per la fine del mese la ripresa delle esportazioni dal nord dell'Iraq, dall'oleodotto di Kirkuk al porto turco di Ceyhan, nel Mediterraneo orientale. Le spedizioni da tale oleodotto erano bloccate dal 18 dicembre scorso, dopo che un attentato aveva interrotto il flusso di greggio. Tale flusso, con terminali sul Mediterraneo, è destinato all'esportazione soprattutto verso l'Europa meridionale e l'Italia. Nelle intenzioni del governo la ripresa delle esportazioni dal nord doveva compensare la riduzione delle consegne da Bassora, nell'Iraq meridionale, dove la produzione, per ragioni tecniche, sarà ridotta del 10 % dal 2  febbraio fino a giugno. Gli introiti petroliferi sono l'unica fonte di ricavi per il governo iracheno, con cui sostenere le forti spese per l'organizzazione delle prossime elezioni e tutto l'apparato dello Stato. Il rapimento dell'arcivescovo cattolico Casmoussa, a Mossul, capitale della regione petrolifera di Kirkuk nell'Iraq settentrionale, pone però molti dubbi sull'effettivo controllo della regione da parte delle forze governative e della coalizione. Questa situazione sta provocando perplessità e timori tra i potenziali clienti di greggio Kirkuk e rischia di creare difficoltà al governo di Baghdad.

Il ritorno alla piena produzione di greggio da parte dell'Iraq è ostacolato da tempo. Nei giorni scorsi l'Opec, l'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, ha rifiutato la richiesta irachena di posporre la prossima riunione, prevista a Vienna il prossimo 30 gennaio. Baghdad aveva chiesto che tale riunione dell'Opec avvenisse dopo le elezioni in Iraq, previste per la stessa data. A tale riunione molti paesi esportatori - soprattutto gli iraniani - intendono ottenere la ratifica per una riduzione della produzione globale di greggio per un totale di un milione di barili/giorno. In tal modo, secondo gli iraniani, il prezzo del petrolio potrebbe non scendere sotto i  40 dollari al barile. C'è infatti il rischio che il prezzo scenda ancora di più a causa del rallentamento dell' economia mondiale e della riduzione dei consumi, che segue la fine dell'inverno nell'emisfero boreale.

La proposta di Teheran fa a pugni con quella di Baghdad: alla riunione di Vienna il governo iracheno intende chiedere il riconoscimento della riapertura dell'oleodotto del nord che prima dell'attentato di metà dicembre trasportava circa 400 mila barili/giorno.

Lo scorso mese, con l'oleodotto da Kirkuk ancora inattivo, l'Iraq ha esportato 1,55 milioni di b/g, mentre prima della guerra le esportazioni irachene erano mediamente attorno ai 3 milioni di b/g. L'oleodotto di Kirkuk ha una capacità di trasporto di circa 700 mila b/g . Con poche stazioni aggiuntive di pompaggio, semplici da installare, potrebbe agevolmente arrivare ad un milione di b/g. Secondo personalità del mondo petrolifero, il rapimento del vescovo è un segnale che nessuno è sicuro nel nord Iraq. Ciò porterà inevitabilmente a un maggior rischio per imbarchi di greggio Kirkuk e a una maggiore convenienza di altri tipi di greggio concorrenti, come quello iraniano e quello russo. Nello stesso tempo renderà più difficile al governo irakeno sostenere economicamente le elezioni.