Il sacrificio del vescovo John Joseph “ha aperto il dibattito sulla legge sulla blasfemia”
di Kamran Chaudhry

La Chiesa cattolica ricorda il 18mo anniversario del suo “martirio per la fede”. La nipote del vescovo dichiara che il gesto estremo dello zio è servito a scuotere le coscienze in patria e all’estero. La legge che punisce con la morte le offese contro il profeta e il Corano è stata approvata nel 1986. Da allora, 1.400 le persone condannate.


Lahore (AsiaNews) – Il gesto estremo di mons. John Joseph, vescovo di Faisalabad che si è tolto la vita all’entrata del tribunale di Sahiwal, ha acceso il dibattito sulla controversa legge sulla blasfemia in Pakistan. Lo riferisce ad AsiaNews Sabina Riffat, nipote del vescovo defunto, in occasione del 18mo anniversario della morte dello zio, che viene ricordato come il “vescovo del popolo, la voce degli emarginati”.

Mons. John Joseph, vescovo di Faisalabad, era una personalità molto impegnata nel campo dei diritti umani e religiosi e lottava contro il fondamentalismo e l’intolleranza religiosa, soprattutto le discriminatorie leggi elettorali e quelle sulla blasfemia. Per dare più forza alla sua lotta e richiamare l’attenzione del mondo su queste ingiustizie, il 6 maggio del 1998 si è suicidato all’entrata del tribunale di Sahiwal, dove si celebrava il processo ad Ayyub Masih, un cattolico che è stato condannato a morte, accusato di blasfemia.

Sebbene il vescovo si sia suicidato (soffriva da tempo di forte depressione), per molti della comunità cristiana pakistana egli è in realtà un martire della fede. 

Lo scorso 6 maggio centinaia di persone, come ogni anno, hanno ricordato il giorno della sua morte. P. Francis Gulzar, vicario generale dell’arcidiocesi di Lahore, ha presieduto la messa in suffragio del vescovo nella scuola elementare di Youhanabad intitolata proprio a mons. Joseph. La nipote afferma: “Il suo sommo sacrificio ha scatenato la discussione sull’abuso delle leggi, sia a livello nazionale che internazionale. Ha suscitato la consapevolezza nell’assoluzione per la maggior parte delle persone che vengono falsamente accusate in questi casi. Mons. Joseph ha abbandonato la vita agiata e i comfort dei salotti per trascorrere gli ultimi anni della sua vita visitando le famiglie cristiane in carcere”.

Riffat, che all’epoca del suicidio dello zio era una suora, dichiara che “il suo martirio ha provocato una rivoluzione nella mia vita. Nel 2006 ho lasciato il convento, perché era difficile lavorare per migliorare le condizioni dei cristiani emarginati sottostando a regole e norme troppo stringenti. Ora posso dedicare più tempo all’attivismo”.

La donna è autrice di cinque libri e porta avanti la missione dello zio in qualità di coordinatrice della sezione femminile della United Religious Initiative Pakistan. In questa organizzazione, Riffat organizza corsi sulla pace e lezioni di cucito per donne non specializzate; dirige anche trattamenti terapeutici per curare le donne che presentano traumi legati all’arresto per casi di blasfemia.

La legge sulla blasfemia è stata introdotta nella Costituzione del Pakistan nel 1986 da parte del dittatore gen. Zia ul Haq, e commina la morte per coloro che sono accusati di offesa a Maometto e al Corano. La legge viene però abusata per eliminare nemici o requisire proprietà degli accusati. Ad oggi, circa 1.400 persone sono state accusate di blasfemia. I tribunali però, nonostante le numerose sentenze, non hanno mai eseguito le condanne a morte contro i blasfemi: gli accusati di solito vengono eliminati in omicidi extragiudiziali o in carcere, o periscono per le violenze della polizia.

Saeeda Deep, fondatrice dell’Institute of Peace and Secular Studies, lamenta: “Zia ul Haq non era un esperto religioso, quindi i governi civili degli anni successivi avrebbero dovuto eliminare la norma. Le persone fanno politica dicendo di voler proteggere l’islam, ma in questo modo commettono violenze per ridurre al silenzio le comunità religiose più vulnerabili”.