Dal 10 febbraio la Freeport McMorRan Inc. ha interrotto la propria attività mineraria lasciando senza lavoro migliaia di operai indonesiani. Il motivo è una disputa fra la compagnia e lo Stato riguardo l’ammontare delle tasse e gli accordi commerciali da rinegoziare col governo.
Jakarta (AsiaNews) – Dal 10 febbraio, la Freeport McMorRan Inc. (colosso minerario americano nell’estrazione di rame e oro) ha interrotto in modo temporaneo la propria attività a causa della rigida posizione del governo indonesiano che ha interdetto alla compagnia di esportare metalli concentrati (cioè non grezzi). Ai migliaia di operai della Freeport – i cui stabilimenti si trovano sui monti Grasberg del Timika e nella provincia di Papua – è stato detto di rimanere a casa finché la produzione non riprenderà dopo la firma di nuovi “accordi commerciali” con il governo.
Da mesi in Indonesia è in atto un braccio di ferro fra la compagnia mineraria e lo Stato in merito al pagamento delle tasse per esportare rame concentrato. Di recente, i vertici dello Stato hanno chiesto alla compagnia di costruire una fonderia sul suolo indonesiano, in modo da evitare l’esportazione di materiali grezzi. La decisione presa dal governo, ha l’obiettivo di stabilire accordi commerciali “più equi” fra la Freeport e il Paese. Tuttavia, il punto cruciale è il tentativo del governo di controllare in modo più minuzioso il colosso minerario.
Il 10 febbraio il ministero dell’Energia e delle Risorse minerarie ha proposto l’opzione definitiva per la firma di un nuovo “schema” di accordi economici. Esso prevede di sostituire l’attuale “contratto d’affari” (Kontrak Karya, Kk) con il cosiddetto “Permesso per le attività minerarie a scopo commerciale” (Izin Usaha Pertambangan Khusus, Iupk). Quest’ultimo, al contrario del “Kk” non è un accordo commerciale, ma attribuisce al governo la proprietà legittima delle aree minerarie e la possibilità di garantire “permessi” di estrazione alla Freeport.
Se la compagnia si rifiuterà di firmare l’Iupk, essa non sarà più abilitata ad esportare rame concentrato e quindi a svolgere alcun tipo di affare commerciale. Inoltre il “blocco” temporaneo del commercio colpirebbe le migliaia di lavoratori indonesiani che lavorano nelle miniere della Freeport.
La compagnia americana si è sempre rifiutata di firmare l’Iupk, sostenendo che l’ammontare delle tasse da pagare al governo non dovrebbe corrispondere a una cifra “fissata” bensì a una somma stabilita con regolarità in base alle leggi esattoriali (standard). Nell’accordo “Kk” invece, la somma delle tasse è aggiornata nel corso di un periodo di tempo “concordato tra le due parti”.
Per allentare le tensioni e ripristinare gli accordi commerciali fra il ministero e la Freeport, il governo ha proposto tre opzioni. La prima è la firma dell’”Iupk” da parte della compagnia, in modo da garantirsi il permesso di esportare rame concentrato mentre vengono negoziati accordi commerciali a lungo termine. La seconda condizione prevede che secondo le leggi sui minerali e il carbone (UU Minerba del 4 novembre 2009), ci sia ancora la possibilità di rinegoziare gli accordi commerciali come dalle aspettative della Freeport. La terza opzione indica che in caso non si riuscisse a trovare un accordo, il caso verrebbe portato all’attenzione della Corte di arbitraggio internazionale.
Ignitus Jonan, ministro cattolico indonesiano per l’Energia e le Risorse minerarie, ha affermato che la Freeport non si è dimostrata abbastanza “grande” nell’adempiere al pagamento delle tasse statali degli ultimi anni. “Non è grande quanto ‘un elefante’” ha affermato Jonan riferendosi alla Freeport, che si sarebbe impegnata a pagare solo 424 milioni di euro di tasse, molto meno della somma pagata dalle industrie del tabacco (quasi 14 miliardi di euro).
All’inizio, Richard C. Adkerson – amministratore delegato della Freeport – ha affermato che il Paese ha guadagnato almeno il 60% delle entrate finanziarie provenienti dal proprio progetto e che dal 1992 “abbiamo pagato più di 15 miliardi di euro di tasse”.
In ogni caso, come ricordato da Jonan, ci sono ancora sei mesi per rinegoziare gli accordi.