In morte di Evtušenko, l’anima del disgelo
di Stefano Caprio

È il poeta che ha cantato il sogno dell’uomo semplice davanti ai mali della burocrazia e della politica. Lo struggente desiderio di “qualcos’altro” rispetto all’apparente perfezione della vita sovietica. Le denunce dell’antisemitismo. Per i giovani, contro la retorica nazionalista.


Roma (AsiaNews) – Il primo aprile, proprio nei giorni in cui si sciolgono le nevi invernali, è venuto a mancare uno dei più grandi “profeti del disgelo”, il poeta e scrittore Evgenij Evtušenko. La sua morte cade nel periodo in cui la Russia cerca di ritrovare una via per l’ennesimo “disgelo” dopo una lunga stagnazione politica e culturale. La fama di questo grande poeta risale all’inizio degli anni Sessanta, quando nelle incertezze post-staliniane dell’Unione Sovietica sotto Chruščev si cominciarono a organizzare serate di poesia e letteratura nel Museo del Politecnico di Mosca, di cui Evtušenko fu uno dei principali animatori.

Egli era infatti diventato già nel 1952, a soli 20 anni, il più giovane membro dell’Unione degli Scrittori dell’URSS, dopo la pubblicazione della sua prima raccolta, Esploratori dell’avvenire. In essa egli si agganciava al futurismo rivoluzionario dei tempi di Majakovskij, denunciando i mali della burocrazia e immaginando che mentre i capi si preoccupano del suo futuro, l’uomo semplice riesce comunque a sognare per conto suo. Nella sua lirica, al di là delle denunce sociali, si ritrova di continuo lo struggente desiderio di “qualcos’altro” rispetto all’apparente perfezione della vita sovietica, come nella poesia Dopo ogni lezione, citata anche da Luigi Giussani nel suo Il senso religioso: “Di cose buone nella vita / ce ne sono tante: gli appuntamenti / i fiori, il teatro… manca soltanto / ciò che vorresti tu – manca, / la cosa essenziale”.

Nel 1991, al crollo del comunismo, il poeta era emigrato negli Stati Uniti, insegnando all’Università dell’Oklahoma, visitando la Russia di tanto in tanto. La sua fama, quasi leggendaria dopo gli anni che dettero inizio al dissenso sovietico, suscitava le reazioni più contraddittorie. Sempre originale e imprevedibile anche nei suoi commenti all’evoluzione della politica in patria, da intellettuale di protesta divenne uomo pubblico di grande influenza e potere, fino ad essere un punto di riferimento negli anni della perestrojka di Gorbačev. Nel 1961 aveva scritto il famosissimo poema Babij Jar, una denuncia dell’antisemitismo sovietico in cui si evocava il massacro nazista della popolazione ebrea nei pressi di Kiev, una delle più grandi stragi della storia dell’Olocausto, in cui trovarono la morte 33.771 persone. I sovietici nascosero la memoria di quella tragedia, rivelando sentimenti non troppo dissimili da quelli dei nazisti. La denuncia di Evtušenko è rimasta un monito per molte generazioni di russi e non solo, con un effetto simile al Diario di Anna Frank. Il suo amico e grande compositore Dmitrij Šostakovič trasformò il poema di Evtušenko nella famosa Tredicesima Sinfonia.

Molti commentatori hanno osservato che negli ultimi tempi sta venendo a mancare in Russia una coscienza del passato, soffocata da retoriche nazionaliste sempre meno attrattive soprattutto per i giovani. La storia dell’antica grandezza della Russia non riesce a scaldare i cuori, la memoria dei tempi sovietici sbiadisce ormai anche negli adulti, e i giovanissimi non hanno neppure quella dei tumultuosi anni Novanta, finora usati da Putin e soci come spauracchio per una popolazione in cerca di stabilità e benessere. Forse vale la pena di tornare ai versi studenteschi di Evtušenko tanto amati da don Giussani, alla semplice e umanissima ricerca di un senso più vero da dare all’esistenza: “Tu sei la mia giovanissima compagna di viaggio. / Io, il tuo anziano compagno. / Mi assilla il pensiero / di ciò che accadrà /dei tuoi capelli castani. / E se ti tormento con l’inquieta / ricerca di qualcosa di alto, di sublime, / io che per primo in molte cose ho creduto, / è perché adesso possa credere tu…”.