L'Europa alla ricerca di un ruolo nel futuro politico dell’Iraq
di Luca Galantini

La caduta di Mosul apre una fase nuova. La Ue, forte dell’esperienza nella ex-Jugoslavia dovrebbe cercare di favorire il processo di riconciliazione  attraverso iniziative diplomatiche di medio-lungo periodo in grado di coinvolgere tutte le istituzioni politiche e sociali locali e centrali per scongiurare il rischio di una frammentazione che alimenterebbe settarismi e contrasti.


Milano (AsiaNews) - La riconquista di Mosul da parte della eterogenea coalizione politica militare riunita nel fronte comune anti ISIS è certo un importantissimo traguardo nella lotta contro lo Stato islamico (IS) ed il sogno della restaurazione di un nuovo califfato imposto dall’ideologia del terrore jihadista  delle milizie guidate da Abu Bakr al-Baghdadi.

La leadership politica del Califfato oggi risulta completamente ridimensionata, specie dopo le voci sulla morte di al-Baghdadi. Ma agli occhi di tutti gli osservatori è evidente che la campagna militare per debellare le residue forze dell’IS che occupano sacche non irrilevanti di territorio comprese attorno al confine tra Siria ed Iraq non è assolutamente conclusa. In particolare va considerata l’ipotesi sostenuta dagli analisti secondo cui le tattiche di guerra delle forze di Daesh (acronimo arabo per lo Stato  islamico), che ora stanno perdendo il controllo fisico del territorio, privilegeranno ancor più il ricorso alle azioni terroristiche nel tentativo di destabilizzare i Paesi membri della coalizione anti IS.

Se la conquista di Mosul è quindi un segnale di speranza concreta verso la fine delle ostilità militari che da decenni purtroppo devastano il Paese dei due fiumi, l’Iraq, la stessa Siria ed il quadrante mediorientale vittima del “regime del terrore” jihadista, è altrettanto evidente che si apre ora una fase di estrema incertezza per la costruzione di un futuro stabile di pace, sicurezza e rispetto dei diritti della persona per quest’area geopolitica e l’Iraq in particolare.

Il punto cruciale attorno a cui ruotano tutte le questioni politiche nel definire il futuro stabile dell’Iraq è insieme molto chiaro e complesso: la condivisione pacifica delle diversità etniche, nazionali, tribali, religiose che sono sempre state una caratteristica storica dello Stato irakeno.

Ricostruire lo Stato in nome della condivisione delle diverse identità che costituiscono l’anima dell’Iraq ha una centralità strategica così importante da essere stata oggetto delle prime dichiarazioni del premier di Baghdad, Abadi, che in visita a Mosul ha subito dichiarato che la migliore risposta al regime di terrore dell’IS è la capacità di vivere assieme delle diverse identità etniche e religiose. Lo stesso Patriarca della Chiesa caldea, Raphael Sako, ha lanciato un appello, riportato da AsiaNews, a tutto il popolo irakeno ed alla comunità cristiana in particolare, affinché maturi una “nuova consapevolezza” in grado di abbandonare le frammentazioni, divisioni e contrapposizioni che hanno alimentato decenni di guerra civile.

Quale può essere il futuro assetto dello Stato irakeno? E soprattutto quali proposte concrete può avanzare la comunità internazionale ed in particolare l’Europa di fronte a questa sfida centrale per il futuro di pace dell’area?

Nel 2011 il presidente Usa Barack Obama annunciava il completo ritiro delle truppe americane dall’Iraq, lasciando intendere con ingenuo ottimismo che la stabilizzazione di un illusorio status quo tra i diversi gruppi etnici, religiosi e nazionali fosse stata raggiunta in base alla nuova Costituzione federale che de facto sanciva la “cantonalizzazione”, ovvero la divisione del Paese in sfere di influenza. In tal modo si accontentavano almeno in parte i desideri di autonomia dei tre principali gruppi etnico-religiosi dello Stato - sunniti, sciiti e curdi - senza che i conflitti esplodessero in guerra aperta e il Paese fosse trascinato nella guerra civile.

La storia ha dimostrato che tale scelta è stata completamente sbagliata. Essa ha favorito la perdita dell’unità politica nazionale, la frammentazione del potere politico a livello locale, senza garantire un’effettiva tutela e pari diritti per le varie etnie, nazionalità e gruppi religiosi minoritari disseminati a macchia di leopardo, in modo non uniforme tra loro. Ciò ha determinato l’aggressiva gestione del potere da parti delle entità nazionali e religiose dominanti nelle varie province in cui era stato diviso il Paese e la relativa discriminazione degli altri gruppi sociali minoritari, ragione del baratro della guerra civile in cui è caduto poi l’Iraq.

Diversi studiosi hanno evidenziato che questo quadro è ben noto alle diplomazie europee, che hanno gestito negli ultimi due decenni un analogo problema altrettanto drammatico: la cosiddetta “balcanizzazione” dei Paesi della ex-Jugoslavia. In particolare nella Bosnia-Erzegovina vi era la compresenza sul medesimo territorio in modo non uniforme di molteplici gruppi etnici religiosi, i bosniaci musulmani, i serbi ortodossi ed i croati cattolici. Ciò ha suggerito alle cancellerie europee la promozione del nation-building della Bosnia-Erzegovina, non formalizzando la divisione del Paese in aree federali a seconda della maggioranza dei gruppi etnici. Tale suddivisione avrebbe provocato la discriminazione e persecuzione delle minoranze in nome di una settaria polarizzazione del potere. Invece si è favorito un processo di integrazione tra le varie entità a livello locale, al contempo rafforzando i poteri del governo centrale di Sarajevo al fine di garantire l’unità dello Stato contro le bellicose tentazioni separatiste dei vari gruppi.

L’Unione europea (Ue), forte della sua consolidata esperienza di “civil power” nei Balcani, ha sulla carta le chances per promuovere in Iraq un processo di riconciliazione che escluda il ritorno ad una suddivisione politica dell’Iraq in diversi Stati, in nome di un settarismo etnico religioso che alimenterebbe nuovamente i conflitti civili. Secondo diversi analisti di politica estera della Ue, ciò può avvenire attraverso la promozione e gestione di tavoli di lavoro permanente a livello locale in grado di promuovere dal basso la mediazione dei vari interessi dei gruppi identitari all’interno di un unico sistema politico locale in grado così di rappresentare e tutelare tutte le varie diversità che caratterizzano la storia dell’Iraq, dalla periferia alla capitale. Analogamente la Ue dovrebbe assumere il ruolo di “patron” nel coinvolgere attorno ad un tavolo di lavoro tutti i global players, Stati stranieri ed organizzazioni internazionali che hanno un preciso interesse, politico, economico, culturale, alla presenza sull’area irakena.

Il compito della Ue sarebbe quello di favorire il processo di riconciliazione  attraverso iniziative diplomatiche di medio-lungo periodo in grado di coinvolgere tutte le istituzioni politiche locali e centrali, le rappresentanze della società civile, dei diversi gruppi identitari nazionali e religiosi per valorizzare il significato della cultura delle diversità che per decenni ha caratterizzato il sistema politico in Iraq, in particolare in quelle aree che hanno subito forti processi di polarizzazione estremistica dei gruppi identitari a danno delle minoranze.

Il processo di nation-building in Iraq sarà sicuramente irto di difficoltà, ma l’esperienza balcanica, pur con tutti gli oggettivi limiti, dimostra che si può superare il drammatico antagonismo dei nazionalismi e degli odi religiosi impedendo che queste caratteristiche divengano uno strumento di contrapposizione all’interno dello Stato.