Rohingya, 116 morti nelle nuove violenze. Il governo accusa i “terroristi bengali”

Il 25 agosto i militanti dell’ l’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) hanno attaccato gli avamposti militari presso i villaggi di Maungdaw, Buthidaung e Rathedaung. I violenti scontri hanno causato la morte di 12  ufficiali delle forze armate e 104 militanti. Il Comitato per l'informazione di Stato di Aung San Suu Kyi impone ai media non usare il termine “insorti”. Evacuati oltre 4mila residenti non musulmani (soprattutto buddisti e indù). Più di 2mila musulmani Rohingya sono riusciti a raggiungere il Bangladesh. Dakha dispone respinge i nuovi profughi.


Yangon (AsiaNews/Agenzie) – Il governo birmano dichiara “organizzazione terroristica” l’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), gruppo armato responsabile dei sanguinosi attacchi dello scorso 25 agosto a 30 postazioni delle forze armate. Nel frattempo, il Comitato per l'informazione del consigliere di Stato Aung San Suu Kyi ha emesso una nota che impone ai media di riferirsi agli aggressori come “terroristi bengali” e non come “insorti”.

Armati di bastoni, coltelli e bombe artigianali, alle prime ore del 25 agosto i militanti dell’Arsa avevano attaccato gli avamposti militari presso i villaggi di Maungdaw, Buthidaung e Rathedaung, nello Stato settentrionale del Rakhine. I violenti scontri hanno causato la morte di 12  ufficiali delle forze armate: 10 agenti di polizia, un agente dell’immigrazione ed un soldato. Le vittime tra i militanti musulmani sono 104.

L’Arsa ha rivendicato attacchi in un post su Twitter, definendoli “azioni difensive” contro le persecuzioni dei musulmani di Rohingya da parte delle forze governative. “Nelle ultime settimane, – ha dichiarato il gruppo –  il governo birmano ha aumentato la sua presenza militare nell’Arakan [vecchio nome per il Rakhine ndr], per deragliare la relazione della Commissione di Kofi Annan, causando disordini nello Stato. Pertanto, nel frattempo abbiamo cercato di evitare un potenziale conflitto”. L’Arsa accusa le “forze militari e di sicurezza” dispiegate in due settori di compiere “incursioni, omicidi, saccheggi e molestie alle donne in molti villaggi Rohingya”.

Secondo le stime delle Nazioni Unite in Myanmar vi sono almeno 800mila musulmani Rohingya. Tuttavia, il governo e gran parte della popolazione non li considerano parte dei 135 gruppi etnici che costituiscono il Paese. Essi sono guardati come immigrati clandestini del Bangladesh, loro nazione d’origine, e si vedono negato il diritto alla cittadinanza nonostante risiedano da generazioni in Myanmar. 

Lo scorso 24 agosto, Kofi Annan, ex segretario delle Nazioni Unite, aveva presentato il rapporto finale della “Rakhine State Advisory Commission”. Istituita un anno fa, la Commissione era deputata ad investigare sulle violenze e le discriminazioni ai danni della  minoranza musulmana dei Rohingya e a proporre soluzioni per cessare le tensioni etnico-religiose. Nella sua relazione, la Commissione consiglia al governo del Myanmar di conseguire il progresso sociale, incoraggiando gli investimenti e garantendo servizi di base nel Rakhine. I punti principali includono la verifica della cittadinanza dei Rohingya, l'emissione di schede nazionali di registrazione, la riduzione delle tensioni e l’impegno per la riconciliazione attraverso colloqui bilaterali tra le comunità. Il documento cita anche la necessità della sicurezza alle frontiere, la cooperazione bilaterale con il Bangladesh e le attività anti-droga. Altro aspetto sottolineato è l’invito alla chiusura dei campi profughi.

Il giorno successivo, Aung San Suu Kyi, consigliere di Stato e leader de facto del Myanmar, ha condannato con fermezza gli attacchi alle forze di sicurezza, affermando che le violenze sono conseguenti alla pubblicazione del documento. “Il governo era a conoscenza del rischio che gli attacchi potessero coincidere con il rilascio del rapporto finale e aveva emesso istruzioni ai ministri dell'Unione interessati”, ha dichiarato “la Signora”. “È chiaro che gli attacchi di oggi sono un tentativo calcolato, per minare gli sforzi di coloro che cercano di costruire pace e armonia nello Stato di Rakhine. Non dobbiamo permettere che il nostro lavoro sia compromesso dalle azioni violente degli estremisti”.

Gli scontri degli ultimi giorni, i più sanguinosi in cinque anni, hanno provocato l’inasprirsi di una grave crisi umanitaria. Il governo del Myanmar ha provveduto ad evacuare oltre 4mila residenti non musulmani (soprattutto buddisti e indù), mentre oltre 2mila musulmani Rohingya sono riusciti ad attraversare il confine e raggiungere il Bangladesh. Tuttavia, temendo un nuovo esodo di Rohingya, Dakha ha disposto il respingimento dei nuovi profughi e ha avvertito i rifugiati già presenti sul suo territorio di non aiutarli ad attraversare la frontiera.

Nella giornata di ieri, la polizia bangladeshi ha arrestato e deportato in Myanmar circa 90 Rohingya in fuga; il giorno prima ne ha intercettati 70. Tra il 26 e il 27 agosto, i media internazionali hanno riferito di spari delle forze armate birmane contro i civili, soprattutto donne e bambini, che tentano di attraversare il fiume Naf, confine naturale tra i due Paesi.

Le ultime violenze rischiano di infuocare ancora di più le tensioni etniche tra la maggioranza buddista ed i Rohingya. Dagli violenze settarie del 2012, sono oltre 140mila le persone scappate dalla regione. Secondo le Nazioni Unite, oltre 80mila Rohingya hanno trovato rifugio in Bangladesh dalla crisi dello scorso ottobre. Anche allora, un gruppo armato (si ritiene lo stesso Arsa) aveva attaccato alcuni avamposti, provocando la morte di nove poliziotti e la dura reazione dell’esercito birmano. Secondo l’Onu, durante le operazioni di sicurezza condotte dal Myanmar, sono stati commessi “con molta probabilità” numerosi crimini contro l’umanità. Tuttavia, il governo ha più volte respinto le accuse