Entrambi sono protagonisti della “rinascita religiosa” russa dopo la fine del comunismo. Kirill propone la “Dottrina sociale della Chiesa ortodossa russa”, che è il manifesto politico di Putin; Tikhon propone la fede come “guardiano dei valori morali”. Egli è il “padre spirituale” di Putin. Una “nuova sinfonia” fra Stato e Chiesa. I rischi di un nuovo cesaro-papismo e la rilettura della storia che valorizza Stalin e il "sacrificio necessario" della Chiesa nelle mani dello Stato.
Mosca (AsiaNews) - Tra le polemiche per i film storici sullo zar e su Stalin, e le discussioni commemorative della Rivoluzione e del Concilio del 1917, due figure emergono sempre più come punti di riferimento per la vita e il futuro dell’Ortodossia russa. Si tratta del Patriarca Kirill (Gundjaev), a capo della Chiesa moscovita dal 2009, e il suo vescovo ausiliario Tikhon (Shevkunov), titolare della sede di Egorevsk da tre anni e noto fin dal 1998 come “padre spirituale” del presidente Putin.
Entrambi sono attivi protagonisti della “rinascita religiosa” russa fin dalla fine del comunismo, ormai quasi 30 anni fa. Vescovo e poi metropolita dagli anni sovietici, Kirill divenne popolare come primo tele-predicatore con un fortunato programma, “La Voce del Pastore”. Tikhon, negli anni ‘80 divenuto monaco a Pskov nell’unico monastero maschile permesso dal regime, descrisse il passaggio dall’ateismo alla riscoperta della fede in un libro sulla vita del suo monastero, “Santi non santi”, che ebbe un’enorme diffusione. Il primo, già grande regista delle scelte patriarcali prima ancora di ascendere alla sede più prestigiosa, divenne il principale ispiratore dei cambiamenti sociali e politici alla fine del periodo “occidentalista” eltsiniano, quando riuscì nel 2000 a far approvare dal Sinodo giubilare dei vescovi il documento sulla “Dottrina Sociale della Chiesa Ortodossa Russa”, di fatto il programma ideologico del nuovo presidente Putin. In quegli stessi anni, Tikhon accompagnava il nuovo leader, allora poco conosciuto, nei viaggi per il Paese e anche all’estero, ispirando leggi “moralizzatrici” contro la vendita di alcolici, contro il fumo e per la difesa della famiglia cristiana tradizionale. Da allora i due si sono spartiti la scena della grande restaurazione dello Stato ortodosso a fianco del presidente con ruoli diversi, a volte complementari, ma spesso anche piuttosto alternativi. Si dice che anche la nomina di Tikhon a vescovo ausiliario sia stata in qualche modo spinta dal Cremlino, e la sua sede effettiva è il monastero, da lui restaurato, che occupa una parte del territorio di piazza Lubjanka, la famigerata sede centrale del Kgb, tanto da essere noto come “il vescovo della Lubjanka”.
Il Patriarcato collaborazionista
Nelle ultime settimane, oltre alle tante considerazioni sul centenario della rivoluzione e del martirio dello zar Nicola II, alcune dichiarazioni dei due prelati si sono concentrate proprio sul ruolo del Patriarcato nella vita della Chiesa, ricordando anche la sua restaurazione nei giorni drammatici della rivoluzione del 1917. Parlando del patriarca eletto allora, anch’egli di nome Tikhon (Bellavin), la discussione ha riguardato le famose dichiarazioni di sottomissione al potere sovietico sottoscritte dal patriarca stesso nel 1922 e dal suo luogotenente Sergij (Stragorodskij) nel 1927, che misero la Chiesa al servizio del regime ateista. Lo stesso Sergij divenne poi nel 1943 successore di Tikhon e “patriarca di Stalin”, legando la Chiesa alla figura del dittatore georgiano, la cui popolarità sta tornando sempre più in auge nella Russia putiniana.
La posizione di Sergij ha segnato così a fondo la vita della Chiesa russa negli anni sovietici, da imporre la denominazione di sergianstvo alla scelta di collaborare con lo Stato, accusa che veniva portata dai russi all’estero contro i gerarchi ortodossi. Alla fine del comunismo, la questione venne affrontata ufficialmente una volta soltanto, al sinodo del 1992 presieduto dal Patriarca Aleksij II, chiedendo perdono per la collaborazione con i persecutori, ma anche giustificandola in funzione della salvezza della Chiesa stessa. Nelle scorse settimane, sia Kirill che Tikhon hanno più volte ripreso queste argomentazioni. Benedicendo un monumento dedicato ai 150 anni dalla nascita del patriarca Sergij, Kirill ha dichiarato che “egli dovette dimenticarsi di se stesso, affinché la Chiesa potesse proseguire la sua esistenza storica, per non essere espulsa dalla vita del popolo”. In una intervista a Radio Svoboda, Tikhon ha dato a sua volta una descrizione del patriarca collaborazionista: “Il metropolita Sergij giustificò la sua politica ecclesiastica con la convinzione che in caso di uscita della Chiesa nella clandestinità, i bolscevichi avrebbero immediatamente impiantato nel Paese la propria Chiesa non canonica degli innovatori”.
Il “sacrificio necessario”
Entrambi quindi sostengono la tesi del “sacrificio necessario” come motivo del compromesso, ma l’immagine della Chiesa che sottintendono appare leggermente diversa. L’attuale patriarca Kirill sottolinea spesso la necessità di collaborare, ma con pari dignità rispetto alle autorità civili, che non devono intromettersi nelle questioni ecclesiastiche. Secondo il vescovo Tikhon, proprio la Chiesa “comunista” degli innovatori o obnovlentsy avrebbe in realtà cercato di realizzare la vera vocazione della Chiesa ortodossa russa, per cui essa non può esistere senza lo Stato; invece di farlo allora, sottomettendosi all’ateismo di Stato, sarebbe giunto il momento di realizzare ora quel modello, la “nuova sinfonia” in cui il capo dello Stato è anche la guida temporale della Chiesa, il vero autocrate ortodosso che interpreta l’anima del popolo.
I due modelli, la “pari dignità” di Kirill e la “Chiesa neo-imperiale” di Tikhon, si confrontano in modo particolarmente acuto da quasi quattro anni, dopo che l’annessione della Crimea ha proclamato simbolicamente il ritorno dell’imperialismo etnico-religioso come progetto principale della politica russa. Non a caso, proprio in questi anni i sondaggi mostrano la crescente popolarità della memoria di Stalin nella popolazione, che insieme a Ivan il Terribile e allo zar-martire Nicola II, rappresenta un ideale sempre più imponente di “padre del popolo” che Putin cerca di rilanciare nell’attuale campagna elettorale.
Il patriarca Kirill ripete spesso che “la Chiesa russa non è mai stata tanto libera come oggi”, e cerca in tutti i modi di stimolare i fedeli a una partecipazione attiva alla vita della società, attraverso la catechesi e l’evangelizzazione prima ancora della politica. Tikhon sottolinea piuttosto il ruolo di “guardiano dei valori morali”, interpretato dai politici di fede ortodossa più ancora che dai gerarchi stessi della Chiesa. Entrambi sostengono un sistema piuttosto clericale di gestione della vita ecclesiale, per timore di eccessi di protagonismo laicale delle “fraternità ortodosse” più fondamentaliste. Per molti motivi, il 2018 sarà un anno decisivo per le prospettive della “nuova sinfonia” ortodossa russa.