All’udienza generale, papa Francesco prosegue nella catechesi sull’idolatria: “La natura umana, per sfuggire alla precarietà, cerca una religione ‘fai-da-te’”. Il vitello d’oro “è simbolo di ricchezza… successo, potere e denaro… le tentazioni di sempre”. “La nostra guarigione viene da Colui che si è fatto povero, che ha accolto il fallimento”. “In Cristo la nostra fragilità non è più una maledizione, ma luogo di incontro con il Padre”. Il ricordo di santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, patrona d’Europa.
Città del Vaticano (AsiaNews) – “Per la porta della debolezza entra la salvezza di Dio”; “è in forza della propria insufficienza che l’uomo si apre alla paternità di Dio”. Così papa Francesco ha sintetizzato l’insegnamento da lui dato oggi all’udienza generale, continuando la sua nuova serie di catechesi sui comandamenti, approfondendo il senso dell’idolatria, da lui affrontato anche la scorsa settimana. L’idolo, ha detto oggi, “è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani”; “il simbolo di tutti i desideri che danno l’illusione della libertà e invece schiavizzano”. Alla fine dell’incontro, il pontefice ha ricordato la festa di santa Teresa Benedetta della croce, Edith Stein, patrona d’Europa, che secondo il calendario liturgico ricorre domani (anche se Francesco ha detto “oggi”).
Per la catechesi, il papa ha preso come spunto il racconto del vitello d’oro, riportato nel libro dell’Esodo (32,1-8). “Questo episodio – ha spiegato - ha un preciso contesto: il deserto, dove il popolo attende Mosè, che è salito sul monte per ricevere le istruzioni da Dio. Che cos’è il deserto? È un luogo dove regnano la precarietà e l’insicurezza, non c'è nulla, dove mancano acqua, cibo e riparo. Il deserto è un’immagine della vita umana, la cui condizione è incerta e non possiede garanzie inviolabili. Questa insicurezza genera nell’uomo ansie primarie, che Gesù menziona nel Vangelo: «Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?» (Mt 6,31)”.
“E in quel deserto accade qualcosa che innesca l’idolatria. Perché? Perché «Mosè tardava a scendere dal monte» (Es 32,1). È rimasto lì 40 giorni e la gente si è spazientita. Manca il punto di riferimento, la guida rassicurante, e ciò diventa insostenibile. Allora il popolo chiede un dio visibile per potersi identificare e orientare. Dicono ad Aronne: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa!»”.
“La natura umana, per sfuggire alla precarietà, cerca una religione “fai-da-te”: se Dio non si fa vedere, ci facciamo un dio su misura. «Davanti all’idolo non si rischia la possibilità di una chiamata che faccia uscire dalle proprie sicurezze, perché gli idoli “hanno bocca e non parlano” (Sal 115,5). Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani» (Enc. Lumen fidei, 13)”.
“Il vitello aveva un senso duplice nel vicino oriente antico: da una parte rappresentava fecondità e abbondanza, e dall’altra energia e forza. Ma anzitutto è d’oro, perciò è simbolo di ricchezza. Successo, potere e denaro. Sono le tentazioni di sempre! Ecco che cos’è il vitello d’oro: il simbolo di tutti i desideri che danno l’illusione della libertà e invece schiavizzano. Perché l’idolo sempre schiavizza. C’è il fascino e tu vai. Quel fascino del serpente, che guarda l’uccellino e l’uccellino rimane senza potersi muovere e il serpente lo prende”.
Ma tutto nasce dall’incapacità di confidare soprattutto in Dio, di riporre in Lui le nostre sicurezze, di lasciare che sia Lui a dare vera profondità ai desideri del nostro cuore. Questo permette di sostenere anche la debolezza, l’incertezza e la precarietà. Senza primato di Dio si cade facilmente nell’idolatria e ci si accontenta di misere rassicurazioni. E pensate bene questo: liberare il popolo dall’Egitto a Dio non è costato tanto lavoro; lo ha fatto con segni di potenza, di amore. Ma il grande lavoro di Dio è stato togliere l’Egitto dal cuore del popolo, cioè togliere l’idolatria dal cuore del popolo. E ancora Dio continua a lavorare per toglierla dai nostri cuori. Questo è il grande lavoro di Dio: togliere “quell’Egitto” che noi portiamo dentro, che è il fascino dell’idolatria”.
“Quando si accoglie il Dio di Gesù Cristo, che da ricco si è fatto povero per noi (cfr 2 Cor 8,9), si scopre allora che riconoscere la propria debolezza non è la disgrazia della vita umana, ma è la condizione per aprirsi a colui che è veramente forte. Allora, per la porta della debolezza entra la salvezza di Dio (cfr 2 Cor 12,10); è in forza della propria insufficienza che l’uomo si apre alla paternità di Dio. La libertà dell’uomo nasce dal lasciare che il vero Dio sia l’unico Signore. Questo permette di accettare la propria fragilità e rifiutare gli idoli del nostro cuore.
Noi cristiani volgiamo lo sguardo a Cristo crocifisso (cfr Gv 19,37), che è debole, disprezzato e spogliato di ogni possesso. Ma in Lui si rivela il volto del Dio vero, la gloria dell’amore e non quella dell’inganno luccicante. Isaia dice: «Per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (53,5). (...)
La nostra guarigione viene da Colui che si è fatto povero, che ha accolto il fallimento, che ha preso fino in fondo la nostra precarietà per riempirla di amore e di forza. Lui viene a rivelarci la paternità di Dio; in Cristo la nostra fragilità non è più una maledizione, ma luogo di incontro con il Padre e sorgente di una nuova forza dall’alto”.
Dopo i saluti nelle varie lingue, il papa ha ricordato che domani “in Europa, si celebra la festa di Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein). Martire, donna di coerenza, donna che cerca Dio con onestà, con amore e donna martire del suo popolo ebraico e cristiano. Che lei, Patrona d’Europa, preghi e custodisca l’Europa dal gelo”.