Naypyidaw respinge le accuse dell’Onu sul ‘genocidio Rohingya’
di Agung

Il governo confida nella Commissione indipendente d’inchiesta (ICoE) per rispondere alle “false accuse formulate dalle agenzie dell’Onu e da altre comunità internazionali”. Il portavoce del partito di Aung San Suu Kyi punta il dito contro “un piano per assecondare le rivendicazioni territoriali e le aspirazioni autonomiste dei bengali [i Rohingya]”. “Non possiamo credere che su 700mila, nessuno dei rifugiati voglia tornare in Myanmar”.


Yangon (AsiaNews) – Il governo birmano “non condivide né accetta le conclusioni del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhrc)” circa le violenze nello Stato occidentale di Rakhine ai danni della minoranza Rohingya. È quanto dichiara oggi il portavoce Zaw Htay, sottolineando che Naypyidaw “non aveva autorizzato la missione d’inchiesta dell’Onu ad entrare in Myanmar”.

Zaw Htay ricorda l’istituzione di una Commissione indipendente d’inchiesta (ICoE), costituita dal governo per rispondere alle “false accuse formulate dalle agenzie delle Nazioni Unite e da altre comunità internazionali”. Il portavoce critica anche Facebook per aver rimosso dal web gli account del comandante in capo delle Forze armate e di altri quattro alti ufficiali: che tale azione “potrebbe ostacolare gli sforzi del governo per la riconciliazione nazionale”.

Pubblicato due giorni fa, il rapporto finale degli investigatori delle Nazioni Unite esorta il Consiglio di sicurezza a rimandare la posizione del Myanmar alla Corte penale internazionale dell'Aia o a creare un tribunale penale internazionale ad hoc. La missione di inchiesta afferma che “i più importanti generali del Tatmadaw (l’esercito birmano), incluso il comandante in capo Min Aung Hlaing (foto), devono essere indagati e perseguiti per genocidio nel nord dello stato di Rakhine”. Tra i crimini citati dopo una lunga inchiesta vi sono omicidio, sparizione forzata, tortura e violenza sessuale “perpetrati su vasta scala”.

Gli esperti Onu criticano anche l’operato del governo civile, guidato dalla leader democratica Aung San Suu Kyi. Pur riconoscendo il “limitato controllo” che la Signora può esercitare sui militari, essi accusano l’esecutivo di “aver permesso ai discorsi d’odio di prosperare”; di “aver distrutto prove e documenti”; di “non aver protetto le minoranze dai crimini di guerra e da quelli contro l'umanità”, commessi dal Tatmadaw in Rakhine, ma anche negli Stati di Kachin e Shan.

Myo Nyunt, portavoce della National league for democracy (Nld), partito di Aung San Suu Kyi, respinge le accuse e nega “le presunte gravi violazioni di diritti umani” contro i Rohingya. Egli mette in dubbio “l’imparzialità e la credibilità” della missione d’inchiesta e punta il dito contro “un piano sistematico per assecondare le rivendicazioni territoriali e le aspirazioni autonomiste dei bengali [i Rohingya]”. “Non concederemo mai la cittadinanza a chiunque torni in Myanmar dal Bangladesh – prosegue il portavoce – [Gli investigatori] Li dipingono come persone oppresse e sarebbero persino disposti a giustificare le loro violenze contro il nostro popolo”.

“Abbiamo già predisposto tutto per il rimpatrio dei profughi ma nessuno torna dal Bangladesh. Perché? – chiede Myo Nyunt – Non possiamo credere che su 700mila, nessuno dei rifugiati voglia venire in Myanmar. Se vogliono tenere 700mila persone in Bangladesh fino a quando queste non abbiano ottenuto il riconoscimento internazionale dei loro obiettivi territoriali, sappiano che non solo i Rakhine [gruppo etnico locale] ma tutto il Myanmar saprà reagire”.