Vescovo di Laghouat: in missione sulle orme di Charles de Foucauld
di Bernardo Cervellera

Mons. Rault, che ha chiesto al Pime una missione in Algeria, parla di un dialogo fatto di "vicinanza" alle persone e ad una società nella quale si va rafforzando il rifiuto delle scelte di violenza.


Roma (AsiaNews) - La missione in un Paese islamico è "testimoniare e dire all'altro che egli è mio fratello, e che è possibile vivere in fraternità anche se non abbiamo la stessa religione". La spiega così mons. Claude Rault, francese, da pochi mesi vescovo di Laghouat, che ha chiesto al Pime di creare una missione anche in Algeria.

A Roma per la beatificazione di Charles de Foucauld, che è sepolto nella sua diocesi, mons. Rault, intervistato da AsiaNews, parla di una presenza fatta più che di dialogo teologico, di vicinanza "fraterna" nella vita quotidiana, proprio sulle orme del nuovo beato, e di un Paese, l'Algeria, trascinato nella violenza da motivi che sono economici, prima che religiosi, e di un Islam che non è "compatto" come appare in Occidente.

"Sono un padre bianco e sono arrivato in Algeria nel 1970". Comincia così il racconto di 35 anni di esperienze dell'attuale vescovo di Laghouat, che in passato ha fatto l'insegnante, ma anche l'artigiano. Per un certo periodo, racconta, "non ho trovato altri lavori e così mi sono messo a lavorare con un artigiano del rame: facevo con lui dei piatti di rame sbalzato. E questo per 4 o 5 anni, insieme a 4 o 5 operai, felici di insegnarmi il loro mestiere. Questa esperienza mi è stata profondamente utile per essere sempre più vicino alla popolazione algerina e comprendere più dall'interno cosa vivono e soffrono le persone nella società algerina".

La diocesi di Laghouat è fra le più grandi del mondo, quasi 2 milioni di kmq nel deserto del Sahara, ma anche una delle più piccole come numero di fedeli…Che volto hanno la Chiesa e la missione?

Nella mia diocesi vi sono 3,5 milioni di musulmani. I cristiani sono un centinaio. Contando anche la sessantina di religiose e religiosi che vi sono, siamo davvero una diocesi molto atipica!

Non possiamo esprimerci in altro modo che basandoci sui nostri rapporti personali. Non siamo una Chiesa con molte strutture, che lavora per sé, per organizzare la sua vita: la nostra attività, il nostro apostolato è rivolto all'altro, alla qualità del rapporto con l'altro per esprimere un'umanità più fraterna.

Prendiamo il caso delle suore, orientate nel lavoro sociale, verso le donne e gli handicappati, ricercate moltissimo dalla popolazione locale. Noi religiosi invece lavoriamo nelle biblioteche, nei centri di cultura, insieme agli studenti, per la formazione, nelle lingue, facendo sostegno scolastico… Spesso siamo richiesti da altri centri simili. Questo nostro contributo è molto amato ed apprezzato.

Il nostro dialogo con l'Islam è un dialogo della vita, nel quotidiano, vicini a una famiglia per i momenti tragici e nei momenti di festa, Natale, Pasqua o Ramadan.

La tomba di Charles de Foucauld a El-Golea, è nella vostra diocesi. Qual è l'eredità che vi ha lasciato?

In occasione della beatificazione c'è stata qualche polemica sulla stampa algerina, per il passato 'coloniale' di De Foucauld. Ma vi sono 3 cose che ancora oggi colpiscono l'animo degli algerini:

che Charles de Foucauld si sia convertito a contatto con questa popolazione musulmana credente. Nel suo viaggio in Marocco e Algeria, quando era ancora militare, ha incontrato queste persone credenti e questo lo ha spinto a rivedere la sua fede. È stato il primo passo, confermato poi dal suo incontro con la Chiesa in Francia.

Un altro fatto è che Charles de Foucauld era un uomo di preghiera. E non separava la presenza di Gesù nell'eucaristia, dalla presenza nel povero. Andava nel deserto per incontrare Dio, ma anche per incontrare i più lontani.

Non è andato nell'Hoggar per insegnare ai francesi e ai tuareg. È andato là per donare e ricevere, si è mescolato a questa popolazione, studiando l'etnologia e la lingua con scritti che sono ancora molto validi. Ha tradotto oltre 600 poesie e canti tuareg, oltre a tradurre la Bibbia in lingua berbera. Aveva anche molti legami con l'elite tuareg del tempo e nello stesso tempo era cappellano dell'esercito francese, fungendo da ponte fra le due parti.

Per noi la beatificazione arriva come un sigillo della nostra presenza in Algeria, in mezzo ai musulmani. La sua esperienza è legata alla nostra e viene presentata a tutta la chiesa universale perché sia condivisa e sostenuta. Talvolta siamo criticati da membri della Chiesa perché "facciamo poco", non "facciamo conversioni…". Ma la conversione è opera di Dio: a noi resta il compito di testimoniare e di dire all'altro che egli è mio fratello, e che è possibile vivere in fraternità anche se non abbiamo la stessa religione.

Da dove nasce la vostra proposta di invitare il Pime in Algeria e a Laghouat?

Anzitutto i padri detti "missionari d'Africa" non hanno il monopolio della missione in quel continente. Poi, fino ad ora, la missione nel Sahara è stata vissuta dai Piccoli fratelli, i Padri bianchi, con una specie di convivialità e di fraternità. Avere una nuova famiglia missionaria nella nostra diocesi è una possibilità per noi, una apertura. E siccome il Pime ha missioni ovunque, in Asia e in America, ci serve ad aprirci alla missione universale.

È anche un regalo alla missione del Pime…

Beh, è un regalo reciproco.

Cosa ricevete e cosa donate alla gente dell'Algeria?

È difficile fare un bilancio. Ciò che dono è anche ciò che ricevo: il sentimento di una fraternità universale al di là della religione di appartenenza. Dio non è imprigionato nelle nostre reciproche religioni e il meglio che possiamo condividere è questo essere insieme figli di Dio. Spesso sono sorpreso quando un algerino mi presenta a un suo amico dicendo: Ecco, questo è il nostro vescovo!". La parola nostro mi colpisce perché pur essendo io straniero, egli mi accoglie nella sua vita. Al di là della nostra religione, nella nostra umanità ci riconosciamo fratelli. Questo riconoscerci e darci il diritto di vivere nella nostra diversità è grande. Vi sono due pilastri su cui si fonda questo: la nostra comune umanità e il nostro comune Dio.

Vi è un dialogo religioso con qualcuno dell'intellighenzia musulmana?

Il dialogo è presente soprattutto nelle grandi città del nord, Algeri, Orano… Nel sud il nostro è soprattutto un dialogo di vicinanza quotidiano, fatto di compagnia e amicizia con le famiglie, la società. Non dialoghiamo sui principi della teologia, ma sul senso dei fatti che ci accadono. Facciamo un esempio: la morte di Giovanni Paolo II. Sono stato davvero sorpreso nel vedere quanti messaggi mi sono giunti da musulmani che mi hanno scritto, visitato, presentato condoglianze dicendo: Non site voi soltanto ad essere in lutto, ma anche noi. Giovanni Paolo II è stato un uomo universale, ha aperto le porte, ha stimato i musulmani, ha parlato contro la guerra. Quando ci sono violenze in Iraq, in Afghanistan, in Palestina non siamo identificati subito con l'occidente. Essi sanno che le posizioni della Chiesa non coincidono con quelle di Bush o di Chirac. Non siamo a servizio dell'occidente. I nostri amici musulmani sanno anche distanziarsi dalle violenze fondamentaliste. Per noi e per loro la violenza non paga mai. Del resto, le prime vittime del fondamentalismo sono gli stessi musulmani.

L'Algeria è famosa per un tentativo di modernizzare l'Islam. Nello stesso tempo essa è tristemente famosa perché nel recente passato le violenze islamiche si sono scagliate perfino contro la popolazione algerina. Quali sono le prospettive e i rischi per la presenza dei cristiani?

Il malessere provocato nel Paese penso non sia tanto di origine religiosa, ma economica. L'Algeria che aveva conosciuto un periodo di prosperità, con la leadership socialista, a poco a poco è scivolata nella crisi economica. Quando il Paese è divenuto indipendente, il barile del petrolio era a 30 dollari. Quando l'Algeria ha cominciato a pagare i suoi debiti, il barile è sceso a 16 dollari. Fino ad allora si importava il 70% delle derrate alimentari. Venendo la crisi, l'Algeria ha dovuto ridurre tutte le importazioni, con enormi problemi per la popolazione. A partire dagli anni '80 questa crisi è divenuta sempre più grave, mettendo in crisi anche la struttura politica. Le rivolte e le manifestazioni hanno scosso tutto il sistema sociale e il potere politico. L'unica alternativa è stata quella del Partito islamico della salute. La violenza è cresciuta sempre più, anche con il blocco delle elezioni. Alcuni islamici sono divenuti dei ribelli e si è diffusa la violenza tristemente famosa che voi avete letto sui giornali. Tutto ciò è stato generato da una destabilizzazione economica, che ha prodotto un malessere interno e vi è anche stata l'azione di un partito che si voleva religioso, ma che è stato soprattutto violento, con più di 150 mila vittime. Ma la violenza non paga mai. A poco a poco la gente si è aperta a un'alternanza politica che sta emarginando la violenza più fanatica ed estremista. In questo frangente, anche la Chiesa ha pagato il suo tributo di sangue con più di 19 religiosi e religiose uccise in questo periodo.

Il fatto che la Chiesa abbia deciso di restare in questa situazione, l'ha ancora più radicata nella popolazione.

Forse prima di questo periodo, l'Islam era visto come un blocco monolitico. Ora gli algerini si accorgono che vi sono diverse modalità con cui l'Islam è vissuto. Anche se la corrente fondamentalista e violenta rimane, la gente comprende che vi sono altri modi di esprimere l'Islam, sia quelli più liberali, sia quelli più stretti.

Ora che il prezzo del petrolio è alto, l'economia algerina va bene?

Il problema del Paese è trasformare le rendite del petrolio in posti di lavoro per la gioventù. Nel 2005 l'Algeria guadagnerà qualcosa come 50 milioni di dollari. Tutto questo verrà usato per migliorare strade, case, ecc. ma non produce posti di lavoro. Forse l'amministrazione algerina non è ancora capace di spingere le ditte straniere a investire nel Paese e formare i giovani al lavoro, producendo nuovi posti di lavoro.