In una lettera aperta si domanda che il 6 febbraio, data della morte del dottore, sia celebrata la “Giornata della libertà di parola”; che il governo chieda pubbliche scuse per aver silenziato l’allarme di Li; che si rispetti la Costituzione cinese che (in teoria) difende la libertà di parola. Il “Quotidiano del popolo” tace sulle minacce della polizia a Li Wenliang. L’hashtag “E’ morto il dott. Li Wenliang” ha ricevuto 670 milioni di visitatori; “Li Wenliang è morto” altri 230 milioni di visitatori. Ad oggi, le morti in Cina per il coronavirus sono 723 (superando le morti totali per Sars del 2002-2003).
Pechino (AsiaNews) – “Non lasciamo che Li Wenliang sia morto invano”: è l’appello che alcuni accademici cinesi hanno lanciato come lettera aperta sul web e condiviso da milioni, dopo la morte del dottore che per primo ha lanciato l’allerta sul coronavirus ed è stato silenziato dalla polizia. In esso – senza riferirsi a nessuno in particolare – si domanda il rispetto della Costituzione, che (in teoria) garantisce la libertà di parola. Per questo si chiede che si tolgano le leggi che frenano tale libertà; che il 6 febbraio (la data della morte di Li) sia celebrato come “Giornata della libertà di parola”; che il governo chieda scusa in pubblico per non aver ascoltato, anzi per aver soffocato la voce del dottor Li, definito “un martire” della verità.
Fra i firmatari vi è il prof. Tang Yiming, a capo della Facoltà dei classici cinesi all’Università normale di Wuhan, la città epicentro dell’epidemia. “Se le parole del dott. Li non fossero state trattate come dicerie, se ad ogni cittadino fosse garantito il diritto a dire la verità, non saremmo in questo disastro, non avremmo una catastrofe nazionale con contraccolpi internazionali”.
“L’epidemia di coronavirus non è un disastro naturale, ma un disastro operato dall’uomo. Dovremmo imparare dalla morte di Li Wenliang”.
Zhang Qianfan, professore di diritto alla Beijing University, un altro dei firmatari, ha detto che la morte di Li Wenliang “non deve spaventarci, ma incoraggiarci a parlare chiaro… Se sempre più persone rimangono in silenzio per paura, la morte verrà ancora più presto. Tutti dovremmo dire no alla repressione della libertà di parola da parte del regime”.
La morte del giovane Li Wenliang – 34 anni, sposato, un figlio di cinque anni e la moglie che aspetta un secondo figlio per giugno – “eroe ordinario”, ha commosso molti. Fino a ieri, l’hashtag “E’ morto il dott. Li Wenliang” ha ricevuto 670 milioni di visitatori; “Li Wenliang è morto” altri 230 milioni di visitatori; “Voglio la libertà di parola” ha avuto 2,86 milioni di visitatori. Ma questi sono stati subito rimosso dalla polizia del web.
Quanto poca libertà di parola ci sia in Cina è dimostrato da due fatti legati alla morte del dott. Li. Il primo: l’annuncio della sua morte è stata “ritardata” per volere del governo, che voleva prepararsi a possibili rivolte. La seconda: la notizia riportata ieri sulla morte di Li Wenliang dal “Quotidiano del popolo” on line non ha nemmeno una riga sul fatto che Li è stato minacciato dalla polizia e dalle autorità dell’ospedale quando ha condiviso a fine dicembre le sue preoccupazioni per un’epidemia “simile alla Sars”.
Intanto, ad oggi alle 10, le morti in Cina per il coronavirus sono 723 (superando le morti totali per Sars del 2002-2003); le infezioni confermate sono 34.621; i casi sospetti sono 27.657; i guariti sono 2052. Il coronavirus si è diffuso in 24 Paesi con 274 infetti confermati e un morto (nelle Filippine).