Rakhine: il Covid ha aggravato l’apartheid dei musulmani Rohingya

Nel rapporto “Una prigione aperta senza fine”, Human Rights Watch denuncia un clima di crescenti abusi e persecuzioni verso la minoranza musulmana. Al 70% dei bambini negato il diritto allo studio. La vita nei campi simile agli “arresti domiciliari continui”. Per molti impossibile sperare nel futuro.


Yangon (AsiaNews) - La pandemia di Covid-19 in Myanmar, considerato il nuovo fronte caldo nel Sud-est asiatico assieme alla Malaysia, ha evidenziato una volta di più le condizioni di grave fragilità della minoranza musulmana Rohingya nello Stato occidentale di Rakhine. Da anni nel mirino della maggioranza buddista, la comunità locale è tuttora oggetto di minacce, costretta a vivere in condizioni di sovraffollamento, aiuti negati, restrizioni agli spostamenti che finiscono con l’aumentare il rischio di trasmissione del virus. È quanto denuncia in un rapporto, pubblicato di recente, Human Rights Watch (Hrw), secondo cui i Rohingya sono inoltre oggetto di estorsioni, molestie e discorsi di odio da parte delle autorità. 

Intitolato “Una prigione aperta senza fine”, lo studio evidenzia come a partire dal 1982 e con una accelerazione impressa nel 2012 dalla leadership militare, la minoranza musulmana sia stata sempre più bersaglio di attacchi mirati e violenze. Una escalation che, secondo alcuni esperti, sarebbe sfociata in una vera e propria politica di “genocidio” - accusa spedita al mittente dalla leader democratica e Nobel per la pace Aung San Suu Kyi - o di fuga obbligata verso l’estero in condizioni sanitarie e umanitarie terribili. 

Gli esperti di Hrw riferiscono che ai bambini Rohingya è negato il diritto allo studio. Circa il 70% dei 120mila minori in età scolare nei campi di accoglienza nello Stato Rakhine sono esclusi dal circuito educativo. Le restrizioni ai movimenti imposte dalla pandemia hanno esasperato il problema e la maggior parte può solo frequentare lezioni di fortuna allestite da maestri improvvisati. 

Il diritto negato allo studio diventa uno strumento per prolungare la politica di segregazione e di emarginazione per la minoranza musulmana, negando loro “un futuro di fiducia in se stessi e di dignità”. Questa situazione, prosegue il rapporto, “finisce per alimentare un circolo vizioso in cui peggiorano le condizioni e i servizi a disposizione”. 

In molti raccontano che la vita nei campi è equiparabile ad “arresti domiciliari continui”, in cui viene negato “il diritto alla libertà di movimento, della dignità, dell’accesso all’impiego e all’educazione, senza beneficiare di cibo, acqua, servizi sanitari”. Secondo alcune denunce, quello applicato alla minoranza musulmana è un vero e proprio sistema di apartheid sullo stile del Sud Africa contro la popolazione di colore; vi sarebbero inoltre leggi e disposizioni governative per impedire ai Rohingya la partecipazione alla vita politica, sociale ed economica della nazione. 

Questo insieme di fattori ha contribuito ad aumentare la morbilità e la mortalità, anche di Covid-19, nei campi profughi, dove già erano presenti situazioni di malnutrizione, malattie trasmesse da acqua inquinata e un tasso di mortalità infantile di molto maggiore rispetto ai buddisti Rakhine. Il governo guidato dalla Lega nazionale per la democrazia (Nld), guidato da Suu Kyi, ha più volte dimostrato di non voler migliorare le condizioni dei Rohingya, conclude il rapporto di Hrw, smorzando gli entusiasmi sorti all’indomani della vittoria alle urne nel 2015. “Come possiamo sperare nel futuro?” sottolinea Ali Khan, che vive in un campo profughi a Kyauktaw. “Le autorità locali potrebbero aiutarci se volessero migliorare la situazione, ma finiscono solo per negarci ogni diritto”.