Lo Xinjiang e il futuro delle relazioni tra Cina e Kazakistan
di Vladimir Rozanskij

Sempre più kazaki fuggono dallo Xinjiang e dai campi di lavoro forzato, e accolti da Nur-Sultan come rifugiati. Il bivio fra “nazionalismo” ed “espansionismo culturale”. Si raffreddano gli entusiasmi per la “Belt and Road Initiative”, la Nuova Via della seta.


Mosca (AsiaNews) - Il Kazakistan ha deciso di assegnare lo status di rifugiato a quattro cinesi di origine kazaka, in fuga dallo Xinjiang per evitare persecuzioni. La decisione presa lo scorso 24 dicembre è apparsa clamorosa all’opinione pubblica del Paese, mostrando il malcontento dei kazaki nei confronti della Cina (v. foto), accusata da molte parti di opprimere i musulmani dello Xinjiang in campi di lavoro forzato, che Pechino definisce “centri di addestramento al lavoro”.

Secondo Tristan Kenderdine, direttore della Future Risk intervistato dalla locale Radio Azattyk, la scelta non dipende però dalla contrapposizione con la Cina, ma “da processi sociali interni al Kazakistan”. Al posto di una politica basata sulle reazioni casuali, si starebbe delineando una strategia per ridefinire i rapporti con la Cina, e controllare le fughe dei kazaki dallo Xinjiang. Questi ultimi erano finora chiamati oralmany, i “ritornanti”. Una recente decisione ufficiale ha invece cambiato il termine in kandasy, i “consanguinei”, per indicare una comunità meno legata alle condizioni dei Paesi stranieri in cui vivono oltre 4 milioni di persone di etnia kazaka.

I kandasy avranno la possibilità di ottenere la cittadinanza kazaka secondo lo jus sanguinis piuttosto che lo jus fugae, ristabilendo l’ideale del “grande Kazakistan” al di là dei confini. Non tutti i kazaki all’estero desiderano peraltro tornare in patria, considerandola spesso come un territorio fittizio creato dai sovietici. Molti di essi si sentono a casa sia nello Xinjiang, che in Mongolia o in Uzbekistan, anche se le politiche locali non mancano di metterli alla prova con varie forme di limitazioni e oppressioni.

Si è dunque al bivio tra una scelta “nazionalista”, che propone lo stato del Kazakistan come unica “casa sicura” di tutti i kazaki, e una di “espansionismo culturale”, che vuole in qualche modo appropriarsi della diaspora etnica kazaka ovunque sia. Tale alternativa, su cui il Paese discute dalla fine dell’Unione Sovietica, deve fare i conti con la nuova politica cinese di “omogeneizzazione” di tutte le nazionalità all’interno dell’impero “sinicizzato”. Da una parte e dall’altra, il modello di riferimento rimane quello sovietico, con la russificazione di tutte le etnie locali in forza della “missione storica” russa: a 30 anni dalla fine dell’Urss, i venti di restaurazione della mentalità imperial-socialista soffiano quindi da varie direzioni.

Un fattore decisivo è comunque la condizione economica, che attualmente in Cina è assai più solida di quella kazaka. La capitale Nur-Sultan, nonostante le sue pretese, è ancora poco sviluppata: nel 2019, quando da Astana cambiò nome, si decise di farne la vetrina del “nuovo Kazakistan” post-sovietico, e l’ulteriore denominazione in onore del “presidente eterno” Nazarbaev rilancia questo progetto, che però non va oltre qualche ultramoderno palazzo del potere. Le altre città storiche come Almaty o Karaganda sono ancora viste dai kazaki all’estero come “città russe” di impronta sovietica, grigie e poco attraenti.

I kandasy si scontrano anche con una difficoltà culturale legata alla non conoscenza della lingua russa, che è ancora in gran parte quella parlata dalla popolazione locale, soprattutto nei centri minori, nonostante tutte le politiche di promozione della lingua nazionale kazaka. All’estero i kazachi ottengono spesso anche un’istruzione di molto superiore a quella che potrebbero ricevere tornando nella patria storica. Molto dipenderà anche dallo sviluppo della nuova Via della seta (la Belt and Road Initiative), che oltre alle infrastrutture prevede, soprattutto in Asia centrale e nello stesso Kazakistan, l’attuazione di nuove linee di produzione industriale. La Cina ha bisogno di chiudere molte delle troppe fabbriche al suo interno, e di aprirle nei Paesi meno sviluppati, legati ai suoi progetti.

Negli ultimi due anni, peraltro, la Via della seta ha perso molta forza propositiva, per il notevole ridimensionamento degli investimenti previsti da parte della Cina.  Ciò lascia nell’incertezza il governo del Kazakistan e gli altri Paesi coinvolti, tra l’orientamento a Oriente o a Occidente, verso la Russia o l’Unione Europea. Non solo alcuni kandasy, ma è l’intero Kazakistan che deve decidere dove andare.