Washington sanziona impresa cinese del solare: sfrutta il lavoro forzato nello Xinjiang

Il 45% del polisilicio usato nel mondo per produrre pannelli solari viene dalla regione autonoma cinese. Colpite altre tre aziende cinesi e un gruppo paramilitare di Pechino. Al Consiglio Onu per i diritti umani, più di 40 Paesi condannano le politiche repressive della Cina contro uiguri, democratici di Hong Kong e buddisti tibetani. La risposta del gigante asiatico.


Washington (AsiaNews) – L’amministrazione Biden ha vietato ieri l’importazione di prodotti per i panelli solari venduti dalla Hoshine Silicon Industry Co: le autorità Usa accusano la compagnia cinese di ricorrere al lavoro forzato. Il divieto riguarda soprattutto l’acquisto di polisilicio, materiale chiave nella produzione di impianti energetici solari. Secondo Reuters,  il 45% di quello usato in tutto il mondo nella realizzazione di panelli solari è prodotto nello Xinjiang; dal resto della Cina arriva il 35%.

Per la stessa accusa, il dipartimento per il Commercio Usa ha imposto il bando alla vendita di prodotti statunitensi a Hoshine, a tre aziende che operano nella regione autonoma cinese e al gruppo paramilitare Xinjiang Production and Construction Corps.

Secondo dati degli esperti e delle organizzazioni umanitarie, confermati dalle Nazioni Unite, le autorità cinesi detengono o hanno detenuto in campi di concentramento oltre un milione di uiguri, kazaki e kirghisi dello Xinjiang. Si tratta di minoranze etniche turcofone di credo islamico.

Rivelazioni di media hanno messo in luce l’esistenza di campi di lavoro nella regione, dove centinaia di migliaia di persone sarebbero impiegate con la forza, soprattutto nella raccolta del cotone. Alcuni studiosi sostengono anche che il governo cinese stia conducendo una campagna locale di sterilizzazioni forzate per controllare la crescita della popolazione di origine uigura.

I cinesi negano ogni accusa. Essi affermano che quelli nello Xinjiang sono centri di avviamento professionale e progetti per la riduzione della povertà, la lotta al terrorismo e al separatismo.

Il 22 giugno, secondo giorno della 47ma sessione del Consiglio Onu per i diritti umani, più di 40 Paesi hanno firmato una risoluzione che condanna le politiche repressive di Pechino nello Xinjiang, a Hong Kong e in Tibet. Presentata dal Canada, vi hanno aderito fra gli altri Italia, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, Israele, Giappone e Australia. I firmatari del documento chiedono al governo cinese di mettere fine alle “detenzioni arbitrarie” nello Xinjiang e di permettere un’indagine indipendente dell’Onu nella regione.

I cinesi hanno risposto con una dichiarazione in cui accusano Ottawa di commettere violazioni dei diritti umani nei confronti della popolazione indigena del Canada. Paesi come Bielorussia, Iran, Corea del Nord, Russia, Sri Lanka, Siria e Venezuela hanno appoggiato l’iniziativa del gigante asiatico. Con un’altra mozione, 65 Stati hanno espresso sostegno a Pechino affermando che Xinjiang, Hong Kong e Tibet sono affari interni della Cina.

Ieri la delegazione cinese al Comitato Onu per i diritti umani ha attaccato anche Stati Uniti, Australia e Gran Bretagna per il trattamento disumano che riserverebbero a migranti e rifugiati.