Carbone indiano e tribali, la denuncia (messa a tacere) di p. Swamy
di Giorgio Bernardelli

Il gesuita morto a Mumbai dopo 9 mesi di detenzione poche settimane prima di essere arrestato aveva dedicato un duro articolo all'asta indetta dal governo indiano per lo sfruttamento privato di 41 nuovi giacimenti di carbone. Il tema di cui oggi tutto il mondo parla dopo la COP26 di Glasgow. 


Ranchi (AsiaNews) - Una voce profetica sul tema delle miniere di carbone in India, che oggi tanto fa discutere il mondo. Messa a tacere in carcere a 83 anni fino a farla spegnere. Tra le denunce che sono costate al gesuita indiano p. Stan Swamy una persecuzione giudiziaria finita con la morte per le conseguenze della prigionia nel luglio scorso, c’era anche quella sulle concessioni sui giacimenti di carbone che il governo di New Delhi aveva messo all’asta violando i diritti delle popolazioni tribali a cui il religioso aveva dedicato la sua vita.

La COP26 di Glasgow, la conferenza sul cambiamento climatico promossa dall’Onu, si è conclusa sabato con l’approvazione di un documento frutto di un compromesso tra i Paesi firmatari dell’Accordo di Parigi. E tra i temi che hanno fatto più discutere c’è stata, appunto, la frenata voluta dall’India sull’utilizzo del carbone nella produzione energetica, con la scomparsa tra gli impegni sottoscritti del termine “uscita” (phase out) sostituito da una molto più blanda “diminuzione” (phase down).

In India il tema del carbone è una questione che non ha solo conseguenze ecologiche ma anche sociali. I giacimenti si trovano infatti soprattutto in un'area ben precisa: il Jharkhand (lo Stato dove p. Swami viveva), in Orissa e nel Chhattisgarh, tutte zone dove è molto significativa la presenza dei tribali. Per questo nel giugno 2020, cioè pochi mesi prima di essere arrestato, il gesuita in prima linea nelle battaglie per le popolazioni più dimenticate dell'India aveva dedicato uno dei suoi ultimi articoli pubblicati sul sito GaonConnection proprio a una dura presa di posizione contro la prima asta indetta dal governo di New Delhi per la concessione a società private di 41 giacimenti di carbone, per affiancare altri investimenti su questa fonte di energia a quelli del colosso pubblico Coal India.

“Ci dicono - scriveva p. Swami - che 100 milioni di tonnellate di carbone saranno trasformate in gas, che l’India diventerà il maggiore esportatore di carbone al mondo e che questo permetterà un gigantesco passo in avanti verso l’autosufficienza del Paese. La maggior parte delle miniere - continuava il gesuita nell’articolo - si trova in aree abitate in maniera predominante dai tribali, nelle loro terre e foreste. E non c’è bisogno di ricordare che i tribali sono tra le comunità più emarginate in India. Rappresentano circa l’8% della popolazione, ma circa il 40% dei 60 milioni di persone cacciate dalle proprie terre per progetti di sviluppo negli ultimi decenni sono tribali. E solo il 25% sono stati reinsediati da qualche altra parte e nessuno riabilitato. Hanno ricevuto solo piccole compensazioni e poi sono stati semplicemente dimenticati”.

Di qui la sua protesta: “Al tavolo del negoziato - commentava - ci sono solo due parti: il governo centrale e le compagnie private. Dove sono le persone la cui terrà verrà scavata, che verranno sfollate, che da proprietari terrieri diventeranno lavoratori precari senza terra?”.

“L’esperienza passata – aggiungeva ancora p. Swami - ci mostra che le società private non rispetteranno le leggi che proteggono le comunità tribali e i loro diritti sulle risorse naturali. Il governo acquisirà la terra dei tribali, con la forza se necessario, e la consegnerà alle compagnie su un vassoio d’argento. Se le persone coinvolte protesteranno dovranno fare i conti con la mano pesante delle forze dell’ordine, volenterosamente sostenute dalle autorità locali. Svariate denunce verranno sollevate contro chi guida le proteste delle comunità che verrà gettato dietro le sbarre”. Proprio come sarebbe successo appena poche settimane dopo all’autore dell’articolo.

P. Swami precisava di non essere a priori contro le miniere di carbone. “Il punto - precisava - è che dovrebbero rispondere ai bisogni della comunità e non al mero profitto. Dovremmo mettere insieme due sentenze significative della Corte suprema; nel dettaglio il verdetto del 2013 che attribuisce al proprietario di un terreno anche la proprietà dei minerali del sottosuolo e quello del 1997 che stabiliva che solo le cooperative locali dei tribali sono titolate a svolgere l’attività mineraria nelle loro zone. Sarebbe dovere dello Stato aiutare nella formazione e registrazione delle cooperative e fornire i mezzi come il capitale iniziale, le competenze tecniche, le capacità manageriali e gli sbocchi di mercato affinché posano funzionare correttamente a beneficio di tutta la comunità. Laddove c’è una volontà, c’è anche una strada”.  

P. Stan Swamy scriveva queste parole il 23 giugno; poche settimane dopo - l’8 ottobre - veniva arrestato dalla Nia, l’agenzia nazionale per la sicurezza, con l’accusa di terrorismo. Nel frattempo l’asta del governo per le concessioni ai privati sui giacimenti di carbone è andata avanti: di quel primo lotto, alla fine, solo 19 miniere sono state assegnate, anche per i dubbi degli investitori sulle politiche a lungo termine sul carbone. Il governo indiano è andato però avanti con nuovi bandi: l’ultima tranche risale al mese scorso. Attualmente sono 88 i giacimenti di carbone a disposizione in India per offerte di investitori privati.