Elezioni ‘patriottiche’, affluenza ai minimi storici: la ‘democrazia’ di Xi Jinping fa flop

Solo il 30,2% degli elettori si è presentato al voto, il primo dopo la riforma che ha azzerato la presenza del campo democratico. Su 90 seggi, 89 ai candidati pro-Pechino; a un esponente centrista quello rimanente. Diocesi cattolica preoccupata per la piena democratizzazione cittadina. Il governo centrale parla di elezioni “rappresentative” e “inclusive”.


Hong Kong (AsiaNews) – Affluenza ai minimi storici ieri alle elezioni parlamentari cittadine, le prime dopo  la riforma elettorale imposta da Pechino per promuovere solo deputati “patriottici” fedeli al Partito comunista cinese e azzerare la rappresentanza filo-democratica: un vero flop per la democrazia in stile Xi Jinping.

Ai seggi si è presentato solo il 30,2% degli elettori. Il dato peggiore dal 1995, quando è stato introdotto il voto per il Legco (il Parlamento locale) nell’allora colonia britannica: alle elezioni del 2016 aveva votato il 58,3% degli aventi diritto; al voto per i consigli distrettuali del novembre 2019, stravinto dai candidati democratici sull’onda delle proteste anti-establishment scoppiate pochi mesi prima, aveva partecipato il 71% dei votanti.

Dei 90 seggi in palio ieri, 89 sono andati a esponenti pro-Pechino, tra cui anche il reverendo Canon Peter Koon Ho-ming, segretario generale della locale Chiesa anglicana; l’unico eletto non allineato in modo formale con l’establishment è il candidato centrista Tik Chi-yuen.

Il voto si è svolto a più di un anno dal suo rinvio e dalla conseguente proroga dei legislatori in carica. In larga parte le forze pro-democrazia hanno rinunciato a candidarsi. Dopo il vaglio del Comitato per la sicurezza nazionale, solo 11 candidati sui 153 ammessi si erano dichiarati estranei al fronte filo-Pechino.

In base alla nuova e controversa legge elettorale solamente 20 membri su 90 sono eletti col voto popolare; ai 40 nominati dal Comitato elettorale pro-Pechino si aggiungono poi 30 deputati scelti tra i rappresentanti delle professioni, anch'essi legati al governo. Secondo diversi osservatori, la riforma è un attacco all’autonomia riconosciuta alla città fino al 2047, parte dell’accordo per il trasferimento di sovranità dalla Gran Bretagna alla Cina nel 1997.

Dopo l’adozione nell’estate 2020 della draconiana legge sulla sicurezza nazionale voluta da Pechino, tutte le principali personalità democratiche della città sono finite in carcere, sotto indagine o in auto-esilio. La maggioranza della popolazione ha preferito dunque snobbare o boicottare un esercizio elettorale privo delle indispensabili garanzie di pluralismo politico. Carrie Lam ha incassato lo schiaffo dicendo che in un’elezione l’affluenza non è importante: per la guida dell’esecutivo cittadino la partecipazione al voto è un dettaglio trascurabile, non – come deve essere – una sua condizione necessaria.

Il governo cittadino minimizza l’esito partecipativo, ma fino all’ultimo ha tentato di incentivare il voto, offrendo persino mezzi pubblici gratis nella giornata elettorale: gli elettori hanno preferito però sfruttare l’occasione per visitare la città invece di raggiungere i seggi. Non sono serviti nemmeno gli appelli dell’ultimo minuto inviati ai cittadini via sms, come anche quello di Xia Baolong, capo dell’Ufficio per gli affari di Hong Kong e Macao del Consiglio di Stato cinese. Non ha funzionato neanche il deterrente di arrestare gli attivisti democratici che hanno promosso il boicottaggio dell’elezione o il voto con scheda bianca.

Alla vigilia dell’elezione mons. Stephen Chow aveva rilasciato una nota intitolata “Preoccupazione per la democratizzazione di Hong Kong”. Il nuovo vescovo di Hong Kong aveva invitato i fedeli a partecipare al voto “secondo i dettami della propria coscienza e gli insegnamenti sociali della Chiesa”. Egli aveva concluso il suo appello chiedendo a tutti di “pregare perché Dio guidi Hong Kong verso la piena democratizzazione”.

In un “libro bianco” pubblicato poche ore dopo la chiusura dei seggi, il governo cinese ha esaltato il voto a Hong Kong, definito altamente “rappresentativo” e “inclusivo”, un passo intermedio per arrivare al “suffragio universale”. Per Xi Jinping la dittatura del partito unico è vera democrazia, non le “formalità” del modello occidentale. Gli abitanti di Hong Kong la pensano in modo diverso.