Idlib, civili alla fame e vittime della lotta di potere fra i gruppi anti-Assad
di Dario Salvi

Nei campi profughi le persone faticano a trovare le risorse quotidiane, mancano i beni primari a partire dal cibo. A poco valgono gli sforzi di gruppi internazionali, incapaci di soddisfare i bisogni di due milioni di persone. Giornalisti e attivisti nel mirino delle milizie che controllano l’area. La controversia del pallone specchio della contesa per la leadership. 


Milano (AsiaNews) - Nei campi profughi della provincia nord-occidentale di Idlib, ultima roccaforte ancora oggi nelle mani dei gruppi dell’opposizione e delle milizie jihadiste che si contendono il potere, l’astinenza giornaliera dai pasti va oltre il Ramadan, mese sacro musulmano di digiuno e preghiera. Le condizioni di vita, già dure, sono aggravate dalla crisi economica che ha travolto l’intero Paese - acuita dalle sanzioni occidentali contro Damasco - che si riflette in una cronica mancanza di cibo. Gli abitanti faticano a racimolare le risorse essenziali della vita quotidiana e i beni primari per sfamare le famiglie a causa dei costi elevati degli alimenti e per la penuria di materie prime, ormai cronica. Una “ferita” come ha ricordato lo stesso papa Francesco domenica 17 aprile, nel messaggio urbi et orbi dopo la messa di Pasqua, che gronda sangue e affossa il desiderio di “pace e riconciliazione” dei popoli di “Libano, Siria, Iraq”.

Sfollati da oltre un decennio di conflitto che ha varcato i confini della Siria e si è trasformato in una sanguinosa guerra per procura fra potenze mondiali, i rifugiati dei campi profughi a Idlib faticano ogni giorno di più ad acquistare cibo e generi primari. L’agenzia turca Anadolu rilancia la testimonianza di Ahmad Abu Omar, fuggito da Hama quattro anni fa e oggi nel centro di Qafar Arouq. “Non riusciamo - racconta - a comprare nemmeno un kg patate, figuriamoci olio di girasole. Cuciniamo senza olio. Andiamo dal dottore, ma non possiamo permetterci medicine in farmacia”.

Una sfollata, di nome Om Ahmad, racconta che la carenza di cibo spinge le persone a raccogliere erbe sulle montagne, per poi bollirle, perché nelle tende non vi è nulla da mangiare. Le difficoltà impattano pure sul modo in cui i residenti del campo profughi vivono il Ramadan, una occasione di festa e di comunità, che rompe il digiuno giornaliero con momenti conviviali dopo il tramonto. Per Mahir Muhammad non si avverte il clima del mese sacro e “non posso comprare nulla per rendere felici i miei figli”. Nonostante enti di beneficenza e gruppi cerchino di fornire pasti caldi e guidare campagne di raccolta fondi, gli sforzi non sono in grado di soddisfare i bisogni di due milioni di sfollati. A Idlib, inoltre, la crisi è legata al crollo della lira turca unita al fatto che le merci come il grano sono di importazione turca, la cui disponibilità è influenzata dalla guerra fra Russia e Ucraina. Una situazione al limite del collasso, che i gruppi radicali cercano di occultare in tutti i modi, minacciando e colpendo testimoni oculari, compresi attivisti e giornalisti.

Gli orrori e la censura

Negli ultimi mesi decine di cronisti e reporter hanno abbandonato il nord-ovest della Siria, alcuni dei quali hanno versato ingenti somme di denaro per raggiungere le coste dell’Europa e sfuggire alle persecuzioni dei gruppi dell’opposizione e di Hayat Tahrir-al-Sham (ex al-Qaeda). Al-Monitor ha rilanciato la testimonianza di Suhail Zubair (il nome è di fantasia, ndr) fuggito da al-Bab - alla periferia di Aleppo - per le minacce dei gruppi di opposizione filo-turchi in seguito ad un’inchiesta sulle violenze nelle carceri ad al-Rai e Afrin, dove sono rinchiusi migliaia di detenuti. Egli racconta di aver subito minacce dal leader di un gruppo jihadista: “Fazioni locali - aggiunge - impediscono alle organizzazioni internazionali di interagire con i detenuti, per bloccare notizie di abusi e violazioni”. Violenze che colpiscono anche donne e minori, comprese giovanissime di 10 anni o poco più. Un collega di Zubair è stato assassinato nel dicembre 2020 per i reportage dall’area. 

Alaa Haitham, anche questo uno pseudonimo, ha lavorato a lungo nella provincia prima di fuggire con la sua famiglia in seguito alle minacce dei miliziani di Hayat Tahrir al-Sham. Quanti controllano l’area sono “jihadisti ed ex combattenti Isis e di Jabhat al-Nusra, che prendono di mira i giornalisti e quanti criticano le loro politiche”. La cronista ha aggiunto che lei stessa ha ricevuto minacce di morte per un lavoro sulla condizione delle donne giornaliste, "vittime di attacchi, arresti sommari, stupri da parte dei membri di Hts”. Le prigioni sparse nei territori controllati dall’opposizione vedono rinchiusi decine di giornalisti e attivisti, altri ancora sono rapiti e uccisi. Almeno 17 sono fuggiti negli ultimi tre mesi perché in pericolo. Secondo un rapporto del maggio 2021 del Syrian Center for Media and Freedom of Expression, partner di Reporter senza frontiere (Rsf), la guerra siriana ha causato la morte di oltre 700 giornalisti tra il 2011 e il 2021, mentre il Paese lo scorso anno si è classificato al 173mo posto su 180 nazioni al mondo per libertà di stampa.

La sfida del pallone

A esasperare la tensione a Idlib vi è anche la lotta interna di potere fra gruppi uniti in passato dalla guerra contro Assad, ma divisi su tutto il resto. Di recente ha scatenato polemiche la decisione del comandante dell’ala militare di Hts, Abu Hassan al-Hamwi, di partecipare alla finale di un torneo calcistico. I gruppi jihadisti accusano Hayat Tahrir al-Sham di perdere tempo con il calcio e lo sport in genere “sprecando il sangue dei mujahedeen” e distraendoli dai loro compiti e obiettivi. Altri ancora hanno ribattezzato l’ala militare di Hts “soccer wing” per la passione calcistica. “Vi sono ogni giorno morti e feriti - afferma Abu Mohammed al-Halabi - ma la preoccupazione dei vertici di Hts è quella di organizzare un campionato di calcio. Durante i bombardamenti di alcuni villaggi nell’area [di Idlib], il comandante Abu Hassan al-Hamwi era impegnato a guardare il torneo”. Un portavoce Hts, dietro anonimato, ribatte: “I gruppi estremisti che criticano per l’organizzazione del torneo di calcio sono ispirati da odio” perché le attività sportive rafforzano “i legami di fratellanza, amore e aumentano la forma fisica”.

La controversia attorno allo sport è guardata con attenzione da osservatori ed esperti, perché si inserisce nella lotta di potere fra gruppi più o meno radicali, dall’Isis ad al-Qaeda. “Hts è ora una autorità a Idlib e ha un proprio progetto - sottolinea Orabi Abdel-Hay Orabi, giornalista siriano specializzato nei movimenti jihadisti - che il governo di Salvezza [anti-Assad] lavora per attuare. Attività sportive, culturali e religiose in linea con l’umore della popolazione locale sono funzionali al progetto. Hts sta usando tali attività per avvicinarsi alla gente e dimostrare che appartiene a questa zona e i suoi combattenti a questa cultura. Non è più la stessa organizzazione jihadista classificata in passato come terrorista”. 

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