Iran, sotto il manto delle repressioni arde il fuoco della protesta
di Dario Salvi

La Repubblica islamica è scossa da una nuova ondata di manifestazioni di piazza contro il caro prezzi. Nel mirino anche il leader supremo Khamenei e il presidente Raisi. Attori, sportivi e intellettuali al fianco della popolazione. Le ragioni della protesta vanno ascoltate, non represse. Sullo sfondo il nodo dell’accordo nucleare. 


Milano (AsiaNews) - La Repubblica islamica è attraversata da una nuova ondata di proteste contro la crisi economica, l’aumento dei prezzi e il taglio ai sussidi che ha già innescato la risposta violenta delle forze di sicurezza, in un quadro di tensione in progressiva escalation. Per alcuni il Paese è una polveriera che rischia di esplodere, altri ritengono che il governo - con il sostegno degli ayatollah - riuscirà anche in questo caso a sedare il malcontento e riportare la calma. Al netto però di una probabile repressione attuata con l’uso della forza che rischia di trasformarsi, come nell’autunno del 2019, in un bagno di sangue per la popolazione. Analisti e studiosi iraniani, spesso in anonimato nel timore di rappresaglie, nel descrivere la società iraniana parlano di un “fuoco che cova sotto le polveri” legato tanto alle durissime sanzioni economiche statunitensi, quanto alla pessima gestione del Paese da parte della classe dirigente. 

Di diverso vi è il fatto che le persone non sono più disposte a tollerare di buon grado le difficoltà per alimentare la propaganda ufficiale e l’ideologia radicale. Anche questo è uno dei motivi per il quale vi è sempre meno sostegno alle politiche economiche del presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi, che riserva denaro alle élite e alle istituzioni a essa collegate, lasciando i più in condizioni di bisogno. Questa gestione è destinata a presentare il conto in un futuro prossimo a fronte di un quadro politico, economico e sociale che già oggi viene definito da più parti “esplosivo”. “Tutte le rivoluzioni - osserva un analista a Middle East Eye - sono nate in un contesto in cui i vertici non hanno ascoltato la voce del popolo”. 

Proteste e repressioni

Notizie non ufficiali, rilanciate sui social network, parlano di almeno cinque persone uccise nei giorni scorsi nell’ondata di proteste che ha toccato diverse province, con la polizia in assetto anti-sommossa dislocata a protezione dei centri sensibili. In contemporanea, il governo ha bloccato internet in numerose aree e città teatro di manifestazioni, inclusa la provincia del Khuzestan dove si sono registrati episodi di forte tensione. Per due settimane migliaia di persone hanno dimostrato nelle province di Chaharmahal e Bakhtiari, a Boroujerd nel Lorestan e a Dehdasht nella provincia di Kohgiluyeh e Boyer-Ahmad. Eventi minori si sono tenuti anche in diverse città della provincia di Esfahan e nella provincia orientale di Khorasan Razavi, anche se il cuore della rivolta, con scontri anche violenti, si è concentrato nelle città di Izeh, Dezful e Andimeshk nel Khuzestan.

A scatenare il malcontento la decisione del presidente Raisi di tagliare i sussidi per grano e cereali, che ha innescato aumenti fino al 300%; una escalation progressiva e inarrestabile, che rischia di mettere in ginocchio una popolazione di 85 milioni di persone, circa la metà delle quali vivono sotto la soglia di povertà. Le autorità giustificano gli aumenti con la guerra in Ucraina e la crisi globale nelle merci e nei trasporti, ma fra la gente è sempre più evidente un clima di insofferenza e malcontento verso una classe dirigente - compresi leader religiosi e ayatollah - giudicati corrotti e incompetenti. Per quanti vivono nelle grandi città, al momento sembra più facile trovare mezzi e risorse per sopravvivere mentre il problema è più acuto nelle aree rurali e nei piccoli centri [il grosso del bacino elettorale che aveva portato alla presidenza Mahmoud Ahmadinejad in passato] dove le possibilità sono assai limitate. E in molti casi, ai cittadini non resta che manifestare. 

L’ira popolare si è andata progressivamente inasprendo e trasformandosi, in parallelo con le urla e i canti. E dai primi slogan in cui si inneggiava “morte al caro-vita” si è passati in poco tempo all’urlo “morte a Raisi” e, ancor più emblematico, “morte a Khamenei”, segnale evidente di una società in ebollizione pronta ad esplodere contro il regime degli ayatollah. Sempre più persone ritengono che Khamenei, Raisi e il loro apparato siano la ragione della diffusa povertà, legata anche agli abusi e alle ruberie di una élite che opera impunita. A questo si aggiungono scelte ideologiche o propagandistiche, come il programma di armi nucleari e missili balistici, che dirottano fondi e risorse altrimenti utilizzabili per migliorare infrastrutture, servizi e investimenti. A Jooneghan, una città nel sud-ovest dell’Iran, i manifestanti hanno fatto irruzione nella base locale delle forze paramilitari Basij, legate ai Guardiani della rivoluzione (Pasdaran, Irgc). Queste milizie hanno il compito di curare e preservare gli interessi di governo e leadership al prezzo di violenze e abusi e sono fra le prime a intervenire per reprimere proteste o colpire dissidenti, come è avvenuto durante le tumultuose settimane dell’autunno 2019. 

Attori e sportivi col popolo 

Alla protesta popolare si è unita la voce di sportivi, attori e intellettuali che sui social hanno rilanciato le ragioni del malcontento e attaccato il governo per la gestione della crisi. L’attore Ali Nasirian sottolinea che è impossibile festeggiare in simili circostanze, con un popolo che soffre la fame. Il collega Parviz Parastoui ha scritto una lettera aperta sui social - poi rimossa - al leader supremo Khamenei, sottolineando che “non è giusto sparare proiettili e gas lacrimogeni” contro persone disperate in piazza che vogliono far sentire la loro voce. “E che - aggiunge - non hanno denaro per comprare pasta, pollo, olio per cucinare”. Il regista Asghar Farhadi, vincitore di premi Oscar, durante una conferenza stampa alla rassegna cinematografica di Cannes ha detto di non poter essere felice quando “molti iraniani” stanno soffrendo. Shahab Hosseini ha ricordato che quando “la povertà entra nelle case” ad andarsene è “la fiducia” nelle istituzioni e la speranza verso il futuro. 

Fra le prese di posizione più dure si registra quella del calciatore Voria Ghafouri, capitano del popolare team Esteghlal football. “Quando si tratta di questioni sociali e civili, il calcio - sottolinea - non è più la mia priorità, e devo approfittare della mia posizione per essere voce [del popolo]”. “Le autorità non si vergognano di questa situazione? Io spero che la nostra gente viva la vita che merita. La nostra vita è breve ed è diritto del popolo iraniano essere felice” ha dichiarato dopo una partita giocata il 14 maggio scorso. In risposta, la tv di Stato iraniana ha vietato le interviste al calciatore e ha censurato le sue foto. Tuttavia, i suoi attacchi hanno mobilitato altri sportivi fra i quali il collega Ali Daei che ha espresso pieno sostegno alle posizioni di Ghafouri. Egli ha criticato gli “estremisti” al potere che “silenziano le voci critiche”. “Le persone - avverte lo sportivo - stanno vivendo la peggiore situazione economica”. Da qui l’esortazione al governo a “pensare come risolvere i problemi”, invece di “imprimere un giro di vite” sul malcontento popolare. 

Il nodo sul nucleare 

Sullo sfondo della protesta resta la questione dell’accordo nucleare, le cui trattative a Vienna sono in stallo da settimane e la chiusura di un nuovo patto con le potenze mondiali, fondamentale per sbloccare la vendita di petrolio e garantire ossigeno alle casse del Paese, si fa sempre più remota. In queste ore fonti del governo statunitense hanno sottolineato che è “ancora lontano” un compromesso con Teheran che salvi l’accordo sul nucleare (il Jcpoa), nonostante l’ottimismo mostrato Bruxelles in seguito alla missione del negoziatore europeo a Teheran. Dal Dipartimento di Stato sottolineano che la Repubblica islamica “deve decidere se vuole continuare a insistere con le sue condizioni, che non hanno nulla a che vedere con il nucleare, o se vuol trovare un accordo velocemente”. Per un accordo spinge anche il governo israeliano, secondo il quale anche uno “cattivo” è sempre meglio di “niente” per garantire un minimo di equilibrio e sicurezza alla regione.