La Chiesa imperiale di tutte le Russie
di Stefano Caprio

Da dove nasce il deciso appoggio del patriarcato di Mosca all'aggressione dell'Ucraina piuttosto che al sentimento pacifista? Le ambiguità - in fondo - si ritrovano già della "Dottrina sociale della Chiesa russa" approvata nel 2000. Kirill vorrebbe accompagnare la vittoria militare con la riunione delle Russie, ma il risultato per ora è la perdita di molte parti della Chiesa che vorrebbe farsi universale.


Uno dei maggiori motivi di scandalo della guerra russa in Ucraina, nell’opinione pubblica internazionale, è il deciso appoggio della Chiesa all’aggressione, addirittura sostenendola con motivazioni religiose e storico-teologiche, almeno nelle omelie del patriarca Kirill. Sembrava ovvio che un’organizzazione religiosa cristiana dovesse piuttosto esprimere un moderato sentimento pacifista, considerando la guerra uno strumento inaccettabile, o quanto meno inadeguato a raggiungere scopi altrimenti condivisibili.

Del resto, gli stessi documenti ufficiali dell’Ortodossia russa sono tutt’altro che favorevoli alle azioni belliche: nella “Dottrina sociale della Chiesa russa”, un testo approvato durante il Sinodo giubilare del 2000, si dichiara che “la Chiesa non può collaborare con uno Stato che dia inizio a una guerra di aggressione” (p.III.8), ed è “obbligata a stare dalla parte della vittima di un’aperta aggressione” (p.II,4;XVI,1). Come minimo, afferma il documento, la Chiesa è “tenuta ad analizzare il conflitto sulla questione della giustificazione alle azioni militari, oppure per definirla come aggressione” (p.VIII.3).

Il patriarcato di Mosca, invece, non solo non ha condannato l’“operazione militare speciale” di Putin, ma ha ripetutamente benedetto le armate dell’esercito e perfino della Rosgvardija, le “forze speciali” delegate a imporre l’occupazione russa in Ucraina. Sembra quindi che abbia prevalso un'altra dimensione della “dottrina sociale”, quella che impone di “difendere la Patria”, come più volte ha ripetuto lo stesso Kirill, principale autore del testo del 2000. In esso si afferma che “la Chiesa russa più volte ha benedetto il popolo nella partecipazione a guerre di liberazione” (p.II.2). Si citano le battaglie contro i tatari, come quella benedetta nel 1380 da san Sergij di Radonež, quella del 1612 contro i polacchi ispirata dal patriarca Germogen, quella del 1812 contro “gli invasori francesi”, in cui il santo metropolita Filaret di Mosca predicava che “se cerchi di evitare la morte per difendere la fede e la libertà della Patria, morirai come un criminale o uno schiavo, se morirai per questo avrai la vita e una corona nel cielo”.

Ancora si precisa che “il patriottismo cristiano è allo stesso tempo amore alla comunione etnica e all’unità dei cittadini dello Stato; il cristiano ortodosso è chiamato ad amare la propria Patria nelle sue dimensioni territoriali, e i suoi fratelli di sangue che vivono in tutto il mondo” (p.II.3), e questo amore patriottico è la vera realizzazione del comandamento evangelico di “amare il prossimo, ciò che implica l’amore alla propria famiglia, ai compatrioti di sangue e ai concittadini”.

In questa duplice espressione della “Patria etnica e civile” si svela tutta la contraddizione del conflitto con gli ucraini, in cui il “legame di sangue e di fede” prevale sulle delimitazioni amministrative e territoriali. Afferma ancora il documento che “il patriottismo del cristiano ortodosso deve essere attivo, e si manifesta nella difesa della Patria dall’avversario”, oltre che nella custodia delle tradizioni e dei valori morali. Il risultato deve essere quello di “una nazione, civile o etnica, che sia totalmente o in modo prevalente una società mono-confessionale ortodossa, e quindi essere considerata come una comunità unita nella fede, quella del popolo ortodosso”. Sono i principi che hanno ispirato non tanto la guerra di questi mesi, ma tutta la politica putiniana dell’ultimo ventennio. Il primo mandato presidenziale di Putin, del resto, ebbe inizio proprio nel 2000, e assunse le concezioni sociali ortodosse come la “linea del partito” da seguire, secondo abitudini radicate nel passato sovietico.

La dottrina sociale ortodossa fu scritta in modo ambiguo: da una parte rifletteva i contenuti analoghi delle riflessioni di un secolo di documenti cattolici, a partire dalla Rerum Novarum di Leone XIII, scritta nel 1891, quando nascevano i movimenti rivoluzionari e ideologici del Novecento, tanto che il patriarcato chiese anche la consulenza di esperti cattolici per la stesura del documento. D’altra parte prevalse poi la necessità di reagire alla scomparsa dell’ideologia ufficiale, che aveva lasciato la Russia degli anni ’90 nell’incertezza di un “liberalismo occidentale” del tutto estraneo alla sua natura. L’ambiguità è rimasta a vari livelli sia della vita religiosa, sia di quella politica e sociale; la Russia di Putin si è trasformata in un Paese liberal-autoritario, in cui il centralismo statale doveva continuamente scendere a compromessi con le spinte centrifughe dei governatori locali, degli onnipotenti oligarchi, delle varie istanze culturali e sociali del Paese. La Chiesa Ortodossa si è riformata abbandonando via via le aperture ecumeniche che l’avevano caratterizzata nella seconda metà del Novecento, e di cui lo stesso Kirill era uno dei principali esponenti. Per arginare la deriva fondamentalista dell’incontrollabile mondo monastico, il patriarca è diventato sempre più il garante dell’idea nazionale, avviluppando la Chiesa in un mortale abbraccio con uno Stato sempre più aggressivo e vendicativo, che dalla guerra in Georgia del 2008-2011 ha proposto una interpretazione “imperiale” del patriottismo e della missione storica della Russia.

Nei giorni scorsi proprio la natura imperiale dello Stato è tornata esplicitamente di attualità nei discorsi pubblici, da Putin ai suoi principali sostenitori e propagandisti, in occasione delle commemorazioni dedicate ai 350 anni della nascita di Pietro il grande. Il fondatore della “capitale del nord”, che ha dato i natali sia a Putin sia a Kirill, si era infatti proclamato nel 1721, dopo la fine della “guerra del nord” con gli svedesi, non più “zar di Mosca e di tutte le Russie”, ma “Pietro I il Grande, Imperatore Panrusso, Padre della Patria”. Il suo attuale successore al Cremlino ne rivendica oggi l’eredità, spiegando che Pietro non intendeva “conquistare altre terre, ma difendere la propria Patria”, e la vittoria che segnò definitivamente la difesa avvenne proprio in Ucraina, a Poltava nel 1709, quando vennero sbaragliate le truppe degli svedesi e dei loro alleati polacchi, danesi, insomma “occidentali”.

È difficile dire che cosa intendesse veramente Pietro con l’aggettivo “imperiale” che sostituiva perfino il titolo di “zar”, ma non si trattava di semplice mania di grandezza, come non si può ridurre l’invasione attuale dell’Ucraina alle ossessioni di un uomo rinchiuso nel bunker alla maniera di Stalin, pur essendo uno dei fattori evidenti di questa crisi. Pietro era un occidentalista, ma non nel senso della disponibilità ad armonizzare la Russia eurasiatica con i salotti parigini; egli intendeva prendere dall’Europa tutte le capacità e le conquiste del progresso, per rifarle a modo suo in Russia, a San Pietroburgo come nuova “città di San Pietro”, nuova Roma di un mondo più potente e universale. Per questo Putin non ha più intenzione di nascondere la sua simpatia per l’imperatore settecentesco, al di là delle umiliazioni che egli inflisse alla stessa Chiesa ortodossa, privata del patriarca e sottomessa al dominio della burocrazia statale. La “difesa dall’Occidente” degradato e immorale non prevede l’instaurazione di un impero orientale, asiatico o esotico per quanto si voglia: la Russia è il vero Occidente/Oriente, che si estende ad ogni latitudine e rivela l’autentica destinazione dei territori, dei popoli, dei beni e delle materie prime, dei desideri dei cuori.

La dizione “di tutte le Russie” (vseja Rusi, letteralmente “di ogni Russia”) fu sostituita da Pietro con quella dell’impero “panrusso”, vserossijskij, che travalica i limiti dei vari principati, Stati e regioni legati storicamente allo sviluppo della stessa Russia. È un concetto “metafisico”, come il patriarca Kirill ha ricordato fin dall’inizio del conflitto. Il vecchio attributo risaliva infatti alle divisioni dei principi della Rus’ di Kiev, che a furia di litigare finirono per farsi travolgere dalla potenza dei cavalieri tataro-mongoli. “Le Russie” erano allora Kiev e Mosca, Novgorod e Pskov, Smolensk e Rostov, Vladimir e Rjazan e tante altre; nel Quattrocento si consumò la lotta tra due città centrali, Mosca e Tver, che avrebbe potuto risolversi con la vittoria di quest’ultima, anch’essa favorita nelle comunicazioni e nei commerci. Ora il titolo di “tutte le Russie” è rimasto solo al patriarca di Mosca, un ufficio ecclesiastico restaurato in epoca sovietica, dopo due secoli di “cattività sinodale” sotto gli imperatori pietroburghesi.

Kirill vorrebbe accompagnare la vittoria militare con la riunione delle Russie, quella Bianca di Minsk e quella Piccola di Kiev con quella Grande moscovita, ma il risultato per ora è la perdita di molte parti della Chiesa che vorrebbe farsi universale. Le 12mila parrocchie ucraine guidate dal metropolita Onufryj si stanno staccando, togliendo al patriarcato il 40% delle chiese e ancor di più nelle percentuali reali dei fedeli, essendo gli ucraini ben più devoti e praticanti dei russi. Si allontanano molte chiese e fedeli della “Chiesa Russa all’Estero”, la cosiddetta Zarubežnaja, una parte dell’Ortodossia che si era staccata dopo la rivoluzione e che proprio Kirill era riuscito a riunire al patriarcato nel 2004, con l’aiuto decisivo dell’attuale metropolita di Pskov, Tikhon (Ševkunov). Due anni fa erano rientrate all’ovile russo anche le 100 parrocchie dell’Europa occidentale che erano rimaste sotto il patriarcato di Costantinopoli, perché non avevano originariamente voluto far parte della Zarubežnaja zarista: ora anch’esse prendono di nuovo le distanze da Kirill. La Chiesa moscovita in Lituania, di antica tradizione russa, sta chiedendo a sua volta l’autonomia, e più della metà dei suoi 60 sacerdoti se ne sono già andati: il metropolita di Vilnius, Innokentij, non vorrebbe rompere, ma rischia di rimanere senza fedeli. La lista potrebbe continuare, ricordando le tante presenze russo-ortodosse in tutto il mondo, e per ora Kirill si può consolare soltanto con la riconquista della Crimea e di una parte delle chiese del Donbass, e forse qualche parrocchia del Kenya o del Burundi, dove la “compagnia Wagner” dei mercenari russi, oltre ad appoggiare qua e là i regimi militari, non manca di fare propaganda per le icone e gli incensi di Mosca.

Il mondo russo ortodosso assomiglia più a un colabrodo che a un impero, e il patriarca più che “tutte le Russie” controlla “qualche brandello di Russia” sparsa in vari territori dentro e fuori la Patria, civile o etnica che sia. Ora non ha più neanche il “delfino” Ilarion, il metropolita che garantiva almeno qualche aggancio in Vaticano o in altri elevati consessi interreligiosi, che si godrà lo spettacolo della disgregazione dell’impero dall’esilio della splendida sponda danubiana di Budapest, antica sede di un vero impero multiconfessionale.

 

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