Accademico iracheno: servono riforme, non il voto. Visita del papa occasione ‘sprecata’
di Dario Salvi

Per Saad Salloum il sistema politico “non funziona” perché ciascuna fazione persegue “il proprio interesse” col sostegno di “milizie, banche, televisioni”. Una “mafia” paralizza il Paese e alimenta la spirale di violenze che segue ogni elezione. Il blocco sadrista boicotta anche il secondo round di colloqui promossi dal premier per superare lo stallo istituzionale. 


Milano (AsiaNews) - Il sistema politico iracheno “non funziona e va riformato”, perché ciascun partito segue “il proprio interesse” col supporto di “milizie, banche private, televisioni e deputati in Parlamento. Uno Stato nello Stato, una mafia, non un panorama politico”. Intervistato da AsiaNews Saad Salloum, giornalista e professore associato di Scienze politiche all’università di al-Mustanṣiriyya a Baghdad, fra le più antiche al mondo, racconta limiti e contrapposizioni di un Paese di nuovo teatro di recente di una ondata di violenze. Proteste di piazza da Baghdad a Bassora innescate dall’annuncio del ritiro dalla vita politica del leader sciita Moqtada al-Sadr, ma dietro le quali vi sono rivalità ed egoismi che paralizzano un sistema istituzionale fragile, che dall’invasione Usa del 2003 non ha saputo garantire la necessaria stabilità. In seno al mondo sciita “inteso come sistema politico, non come popolo”, osserva lo studioso, “vi è una crisi di identità e di contrapposizioni”. Pure la visita del papa, che ha rappresentato un momento “straordinario” e unico della storia recente “ma sprecato”, appare oggi a distanza di un anno e mezzo come una “occasione mancata”. Intanto si è concluso con un nulla di fatto il secondo round di colloqui promosso dal premier Mustafa al-Kadhimi. Anche in questo caso il blocco sadrista ha boicottato l’incontro, rendendo vani gli sforzi del governo. Da qui il rinnovato appello dei partecipanti alla fazione sciita, perché torni a sedere al tavolo delle trattative in un clima di crescente tensione. 

Professor Salloum, come giudica la situazione attuale dell’Iraq?
Il problema ruota attorno a un sistema politico che non funziona e va riformato. Il primo passo è che gli sciiti accettino una revisione del potere e della ricchezza, avviando una ristrutturazione interna e un dialogo con gli altri partiti e minoranze. In seno al mondo sciita, inteso come sistema politico e non come popolo, che è diverso, vi è una crisi che è anche di identità e di contrapposizioni [vedi le diverse alleanze con Stati Uniti e Iran], quindi il sistema non può funzionare perché preclude la possibilità di cambiamento. I leader politici devono spingere sulle riforme, la lotta interna al mondo sciita [maggioritario nel Paese] sarà determinante per il futuro mentre sempre più persone, vedi migliaia di yazidi nelle scorse settimane, cercano la fuga oltreconfine. 

Si aspettava una escalation di violenze come quella dei giorni scorsi? 
Ciò cui abbiamo assistito è il circolo della violenza, che è la via più facile e percorribile per fazioni e partiti [per avanzare rivendicazioni], perché lavorare per la pace è più difficile. Servono negoziati, dialogo, ma nel panorama attuale nessuno ha l’abilità per farlo. Il bilanciamento dei poteri è arte, ma nessuno ha interesse a perdere la propria egemonia. Ciascun partito segue il proprio interesse col supporto di milizie, banche private, televisioni e deputati in Parlamento. Uno Stato nello Stato, una mafia, non un panorama politico e partitico. Ecco perché la violenza resta, non vengono intaccate le radici, mentre la mafia continua a trarre giovamento dalla struttura stessa del Paese. 

In molti vedono nelle elezioni anticipate una possibile via di uscita. Lei pensa che possano rappresentare una svolta contro lo stallo politico e istituzionale?
Moqtada al-Sadr, il presidente della Repubblica, il patriarca caldeo solo per fare alcuni nomi, in molti hanno parlato di elezioni anticipate. Tuttavia, senza la partecipazione di tutti i leader è di fatto inutile, è un procrastinare la lotta con gli stessi problemi e difficoltà di oggi. Le elezioni sono esse stesse uno dei problemi, non una possibile soluzione visto che dopo ogni voto si innesca una spirale di violenza che sembra insita nel sistema. Serve una riforma strutturale, ma tutti i partiti e le fazioni - dall’interno - sanno che al momento è impossibile.

Invasione Usa, violenze interconfessionali, lo Stato islamico: un ventennio di sangue per il Paese. Cosa aspettarsi per il futuro?
Dall’invasione statunitense e la successiva caduta di Saddam Hussein, il circolo di violenze accompagna la tornata elettorale a causa di un sistema politico basato sulle componenti e non sulla cittadinanza o sull’identità nazionale. Dopo ogni votazione torniamo sempre al punto iniziale, tanto che le urne oggi non sono un fattore di democrazia. Nel 2006 le violenze a Samarra, nel 2010 gli attentati alle chiese a Baghdad, nel 2014 l’Isis, nel 2018 le proteste di piazza con le numerose vittime, poi il voto nel 2021 e ancora una situazione di stallo e di crisi. Lo stesso circolo vizioso: urne, negoziati, violenze. Il problema non è il voto in sé, ma il sistema politico che non funziona più. Il Paese va fondato su cittadinanza e multiculturalità. 

Dottor Salloum, quali alternative vi sono - oltre al voto - per rispondere alla crisi?
Prima di tutto va ristrutturato il sistema politico, contando sul sostegno internazionale perché senza di esso, come è avvenuto per la caduta di Saddam, è impossibile cambiare. Un modo ragionevole per farlo sarebbe partire da una riforma della Costituzione e da una modifica al sistema parlamentare, per dare meno potere e possibilità di influenza ai deputati sull’azione di governo. Inoltre serve una magistratura più forte, libera dalla morsa della classe dirigente e dei partiti. E ancora, bisogna rivedere e bilanciare gli equilibri fra Baghdad (il potere centrale) ed Erbil (la regione autonoma curda), perché il rapporto oggi non funziona e sembra più un sistema confederale, che federale. I curdi devono essere contributo alla soluzione e non parte dei problemi, combattendo la visione nazionalista per cui ciascun partito o fazione pensa a sé. 

Lei insiste spesso nel concetto di “unità nella diversità” come fondamento delle società. Come può essere applicato oggi?
Cambiando paradigma: l’unità nella diversità non è una minaccia, ma la via per l’unità. Serve investire nella diversità, soprattutto per le nuove generazioni. La migrazione della classe media, l’esodo di armeni, sabei, yazidi è una perdita grave per il Paese perché sono parte delle sue radici, del sistema culturale. L’Iraq non si può basare sull’identità araba e musulmana e solo la diversità può garantirne il futuro per le nuove generazioni. 

Professore, cosa resta della visita di papa Francesco in Iraq?
Il viaggio del papa ha avuto una grande influenza nel sottolineare le diversità presenti nella società irachena e ha rappresentato un fattore di cambiamento della mentalità. Tuttavia, il lavoro doveva iniziare subito dopo che il pontefice ha lasciato il Paese. Purtroppo i leader politici, tutti, hanno usato il viaggio come occasione di visibilità personale senza investire con progetti di lungo periodo. Personalmente, guardo alla visita del come a un momento straordinario, ma sprecato per l’Iraq. Una occasione mancata. 

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