Ecumenismo anno zero
di Stefano Caprio

Se il dialogo tra le Chiese è stato un modo per uscire dalle tensioni delle guerre mondiali del Novecento, i nuovi conflitti attuali rivelano che gli sforzi di quel grande lavoro non hanno potuto eliminare le ragioni delle divisioni, spesso assai poco spirituali e molto legate alle vicende storico-politiche, come del resto avveniva negli scismi più antichi.


Si è conclusa in questi giorni la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, e al di là dei tanti e meritevoli incontri nelle chiese cattoliche e protestanti, è stato evidente quanto l’ecumenismo “classico”, inaugurato agli inizi del Novecento dagli evangelici e progressivamente assunto anche da ortodossi e cattolici, si sia ormai mestamente esaurito. La quasi totale assenza dei rappresentanti delle Chiese ortodosse, devastate da guerre e scismi come mai prima, ha reso manifesta l’impotenza di tutte le confessioni che si richiamano al Vangelo, che non riescono a trovare la via per la pace e la riconciliazione.

La “guerra santa” della Russia, benedetta e proclamata dal patriarca e da quasi tutto il clero ortodosso russo, ha riportato il mondo cristiano alle sensazioni di un conflitto che sembrava ormai sepolto da secoli, quello dello scontro tra i popoli e le religioni. Da più parti è stata richiesta una condanna esplicita della “eresia imperialista” del patriarca Kirill, e il Consiglio ecumenico delle Chiese ha discusso nei mesi scorsi la possibile espulsione della Chiesa russa. Il papa Francesco condanna la guerra ad ogni occasione, cercando allo stesso tempo di mantenere una porta aperta al dialogo con i “fratelli” moscoviti, ma non si sente più il giubilo del saluto Somos hermanos! che Bergoglio rivolse allo stesso Kirill nello storico incontro dell’Avana, il 12 febbraio 2016, evento di cui ricorre tra poco l’anniversario, ma che sembra allontanarsi di secoli dalla memoria condivisa.

Gli ortodossi ucraini, pur cercando di unirsi per contrastare l’invasione bellica e ideologica della Russia, non riescono veramente a trovare una formula che li possa rappresentare tutti insieme. L’Ucraina rimane la terra in cui esiste il maggior numero di giurisdizioni ortodosse, e ogni tentativo di ricapitolarle in un’unica Chiesa finisce per generare ulteriori dispersioni e frazionamenti. Gli “autocefali” hanno ottenuto in questi giorni dallo Stato l’uso esclusivo della sede più prestigiosa, la Lavra delle Grotte di Kiev, scacciando il metropolita e i monaci filo-russi che a loro volta si dividono in “kirilliani”, “onufrini” (sostenitori del moderato metropolita Onufryj), neutrali o “quasi autocefali”. La giurisdizione storicamente legata al patriarcato moscovita, con le sue 13mila chiese (più che nella stessa Russia), si è dichiarata a giugno “autonoma”, ma l’impressione che la definizione più adeguata sia quella di “Chiesa anarchica”, senza punti di riferimento stabili.

Nelle convulse vicende belliche, si accumulano perfino le “sanzioni ecclesiastiche” reciproche, che intendono escludere qualunque tipo di incontro tra i cristiani in lotta per le proprie terre, le proprie chiese e monasteri, perfino per le date delle maggiori feste liturgiche. Da Kiev fioccano gli anatemi contro il patriarca russo e i suoi accoliti, parenti e conoscenti compresi, addirittura è stata emessa una “condanna” a trent’anni contro il metropolita Ilarion (Alfeev), uno dei più accesi nemici storici degli ortodossi “non moscoviti” di ogni genere, che lo ha raggiunto in Ungheria dove è stato esiliato dallo stesso patriarca Kirill, per ragioni politico-ideologiche piuttosto oscure.

La crisi dell’ecumenismo non è peraltro un frutto delle vicende russo-ucraine degli ultimi anni, che anzi sono in parte una conseguenza di un processo ben più lungo ed esteso. Se il dialogo tra le Chiese è stato un modo per uscire dalle tensioni delle guerre mondiali del Novecento, i nuovi conflitti attuali rivelano che gli sforzi di quel grande lavoro non hanno potuto eliminare le ragioni delle divisioni, spesso assai poco spirituali e molto legate alle vicende storico-politiche, come del resto avveniva negli scismi più antichi.

Già prima dei grandi cambiamenti politici di fine secolo, che hanno portato al crollo del muro della “guerra fredda” e alla ridefinizione dell’ordine mondiale, si cominciava a percepire un clima sempre più intricato e contraddittorio nelle varie forme del dialogo interconfessionale. Dagli anni Ottanta in poi non si sono più registrati veri progressi nella comprensione e nella collaborazione tra le Chiese, per motivi che ora appaiono clamorosamente evidenti, quando la Russia giustifica la guerra totale come reazione alla “perdita dei valori tradizionali” nel resto del mondo. Il processo di secolarizzazione e di superamento di proibizioni storiche come il divorzio e l’aborto, le unioni omosessuali e il sacerdozio femminile, ispirato da movimenti e istanze sociali che hanno trovato forme di espressione anche in ambito ecclesiastico, ha provocato una reazione sempre più radicale in campo ecumenico.

All’ecumenismo del dialogo e dell’apertura alle istanze della modernità, si è sostituito sempre più il tentativo di formare alleanze conservatrici e anti-secolariste, di cui la visione apocalittica dell’ortodossia russa è la versione finale. Il sogno dell’unità tra le Chiese è svanito, per lasciare spazio alla scelta di campo in cui ciò che conta non è l’unione interna, ma la contrapposizione comune al nemico esterno. Il 2016 è stato l’anno emblematico che ha sancito questa svolta radicale: a febbraio il patriarca di Mosca ha incontrato il papa di Roma, esaltando l’alleanza cattolico-ortodossa, e a giugno è clamorosamente fallito il Concilio panortodosso di Creta, che ha visto le Chiese d’Oriente divise proprio sulla questione ecumenica.

Già lo storico incontro di Cuba aveva suscitato reazioni molto negative tra gli ortodossi, in Russia e non solo, con critiche di “compromesso con gli eretici” che invano Kirill cercava di giustificare con la necessità di collaborare per salvare le antiche tradizioni. I giorni prima del Concilio, evento che avrebbe dovuto riassumere in unità un intero millennio di divisioni, si sono sfilate le Chiese di Bulgaria, Antiochia, Georgia, Serbia e Russia; i serbi hanno poi cambiato idea, andando a Creta per affossare proprio il documento sulle “Relazioni della Chiesa Ortodossa con il resto del mondo cristiano”. Il patriarca Bartolomeo di Costantinopoli ha quindi lasciato da parte ogni diplomazia interna, attivando dopo il Concilio la procedura che ha condotto due anni dopo alla proclamazione dell’autocefalia ucraina, rompendo definitivamente le relazioni con la Chiesa “figlia degenere” di Mosca.

Le Chiese non sono più “madri e figlie”, non sono più neppure “sorelle”, ma soltanto alleate o avversarie. Cattolici e protestanti assistono a questo snaturamento della “famiglia” dei cristiani, che vorrebbe invece difendere i valori della “famiglia naturale” contro le nuove forme di proclamazione dei diritti e delle libertà, senza capire come recuperare le fila di un confronto comune, e finendo per schierarsi disordinatamente sui campi di battaglia. A fianco degli ortodossi radicali e anti-ecumenici si dispongono sempre più i grandi movimenti pentecostali conservatori, molto attivi nel sostegno a politiche sovraniste e intolleranti, ma anche tante comunità cattoliche si sentono poco rappresentate dall’attuale gerarchia romana, e finiscono per rafforzare il coro della protesta fondamentalista.

Lo slogan dell’ecumenismo classico, “unità nella diversità”, si applica a una visione pluralista ed inclusiva della relazione tra i cristiani, che corrisponde a una presenza dialogante e non invasiva della Chiesa nella società contemporanea. Questa visione condusse già nel 1997 i georgiani e i bulgari ad abbandonare il Consiglio ecumenico delle Chiese, rendendo evidente il disagio in tutto il mondo ortodosso, molto tradizionalista per sua stessa natura. Da allora si cerca di vivere un “ecumenismo locale” o “dal basso”, limitato alle relazioni fraterne fra diverse confessioni presenti su territori specifici, con alterni risultati e con l’evidente riconoscimento dell’impossibilità di una riunione a livello generale. Alcuni teologi luterani hanno definito questa crisi come il passaggio da un ecumenismo unitive a quello semplicemente interdenominational, come due varianti ormai incompatibili tra loro.

Uno dei più autorevoli gerarchi ortodossi russi, il metropolita Tikhon (Ševkunov) noto anche come “padre spirituale di Putin”, ha ripetuto in questi giorni di non vedere “alcun reale futuro per l’idea dell’ecumenismo nella Chiesa”. Di fronte ai tentativi di “omologazione ecumenica”, a suo parere, vi sarà sempre la “reazione difensiva del popolo credente”, che segue “senza farsi attendere, e in forma molto decisa”. Molti sacerdoti russi, osserva Tikhon, “ricordano le preghiere ecumeniche dei tempi sovietici, a cui il clero era obbligato ad unirsi, per volontà dello Stato”. La teologia dell’ecumenismo è “triste e affettata, non ha reali fondamenta”, mentre la vera teologia ortodossa è “ispirata, e fondata sulle tradizioni dei Padri”. Uno dei teologi più vicini a Kirill, il protoierej Aleksandr Lebedev, definisce l’ecumenismo una “terribile malattia spirituale, che ha infettato a lungo tutte le Chiese”.

Uno stimato teologo ecumenico ucraino, l’ortodosso padre Cyril Hovorun, a un recente convegno a Roma ha invitato tutti a non scoraggiarsi del tutto, di fronte al fallimento del dialogo e alla volontà dei russi di inglobare tutti nella guerra metafisica. Egli sostiene che “escludere un fratello non è la via per la riconciliazione: dialogare vuol dire anche invitare al pentimento e al cambiamento, alla metanoia, cominciando dalla conversione del proprio stesso cuore”. L’ecumenismo deve ripartire dall’anno zero, invocando la redenzione di tutti, come è inevitabile per l’umanità ferita dal peccato originale, e dal peccato di Caino.

 

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