Sacerdote a Iskenderun: dal sisma l’unità fra Chiese, la preghiera di cristiani e musulmani
di Dario Salvi

P. Antuan Ilgıt, gesuita, racconta la situazione a una settimana dal devastante terremoto. Il crollo della cattedrale e la macchina dei soccorsi della Caritas, con mille pasti al giorno agli sfollati e gli aiuti inviati ad una Antiochia devastata. Il pensiero ai rifugiati siriani “che non possiamo abbandonare”, perché “dobbiamo arrivare dove nessuno può o vuole arrivare”. 


Milano (AsiaNews) - La condivisione di una “esperienza drammatica”; un ecumenismo di fatto che porta cristiani di confessioni diverse “all’aiuto reciproco”; un dialogo interreligioso che si fa esperienza viva di “accoglienza” e di momenti di “preghiera comune, come la partecipazione alla messa anche di alcuni musulmani”. Così p. Antuan Ilgıt, gesuita e cancelliere vescovile del vicariato apostolico dell’Anatolia, racconta ad AsiaNews la realtà quotidiana a Iskenderun, e in Turchia, a una settimana dal devastante terremoto che ha colpito il Paese e la vicina Siria.

“Stiamo condividendo - sottolinea il sacerdote, in prima fila sin dall’inizio nei soccorsi agli sfollati, siano essi cittadini o rifugiati stranieri - un evento drammatico. A livello personale ho cercato di usare le mie conoscenze a Mersin, città di origine, e i rapporti di amicizia coltivati negli anni, come quello col sotto-prefetto, per raccogliere aiuti e sopperire alle prime necessità come la corrente elettrica”. 

“Anche sul piano dei rapporti - spiega - condivido nel quotidiano le difficoltà di tutti. Da una settimana non possiamo lavarci perché manca l’acqua, usiamo solo salviette per un minimo di igiene personale, mi sento davvero il pastore in un gregge di pecore non solo sul metaforico. Le persone, incontrandomi, esternano con più facilità i sentimenti, piangono disperate ma una parola di conforto riesce a produrre subito un qualche effetto”. E nel dramma, prosegue, “qui a Iskenderun siamo messi bene rispetto ad Antiochia: stamane ho parlato col sacerdote locale p. Francis [Dondu, parroco della chiesa dei Santi Pietro e Paolo ndr] che parla di situazione gravissima”. “Da noi, invece, è crollata la cattedrale, ma la parrocchia è rimasta in piedi sebbene tutto attorno molte case siano crollate, e per questo siamo diventati un punto di riferimento per soccorsi e accoglienza”. 

P. Antuan, come ricorda lui stesso, è “l’unico gesuita turco e l’unico sacerdote cattolico di origine turca” nella zona “al servizio della Chiesa di Turchia“, nazione in cui vive stabilmente da un anno dopo averne trascorsi molti all’estero per studio e missione. “Considero il fatto di essere rientrato e di aver condiviso questa esperienza - sottolinea - una grazia, perché è un momento doloroso per la nostra storia” e molti sono i bisogni. “Qui a Iskenderun stiamo ricevendo molti aiuti che, appena arrivano, smistiamo anche in altre zone. Siamo riusciti a inviare tre carichi ad Antakya e utilizziamo la parrocchia di Mersin, in parte risparmiata, per ospitare gli sfollati, cattolici e ortodossi, senza distinzioni. Questo è quello che chiamo l’ecumenismo della tragedia, che avvicina latini, armeni, ortodossi e non solo. Ci sono musulmani - racconta - che chiedono di partecipare alla messa, che hanno bisogno di pregare e sentire Dio vicino a loro, perché questo diventa fonte di consolazione. Il terremoto ci ha unito, una devastazione enorme ha saputo generare anche del bene e insegna che se i grandi scelgono la guerra” i popoli e le persone “possono invece impegnarsi per la pace… questo lo viviamo sulla nostra pelle!”.

Il religioso è nato in Germania nel 1972 e proviene da una famiglia di migranti musulmana. Egli è rientrato in Turchia da giovanissimo, dove ha studiato e si è laureato in economia alla Gazi University di Ankara. A quegli anni, vissuti nella capitale, risale la conversione al cattolicesimo e il battesimo nel 1997 alla chiesa di santa Teresa del Bambin Gesù, poi gli studi e il noviziato conclusi nell’ordinazione sacerdotale e la celebrazione della prima messa, che abbiamo a suo tempo raccontato in questo articolo su AsiaNews.

“Al momento del terremoto [erano le 4.17 del mattino del 6 febbraio] non sono uscito subito dalla stanza” ricorda. “Il sisma è durato due minuti, sono uscito con alcune suore e due volontari italiani che erano venuti a bussare alla mia porta. La cattedrale non c’era più, crollata, si erano salvati solo abside, tabernacolo e le statue della Madonna e di sant’Antonio. Ho camminato sulle macerie per prendere il Santissimo… è stato incredibile vedere quella distruzione dove, poche ore prima, avevo celebrato la messa”. “Sono arrivati subito - ricorda - la cuoca col marito, poi i parrocchiani con una coperta indosso e a piedi nudi, in lacrime per aver perso la cattedrale, la loro casa. Ho vissuto tanti dolori in vita mia, ma questa è la prima esperienza di una tragedia ed è importante il conforto e la collaborazione con il vicario, mons. Paolo Bizzeti [proprio oggi, su Facebook, il sacerdote racconta di come ha avvisato il prelato del sisma e le prime risposte all’emergenza], e il responsabile della Caritas locale John Farhad Sadredin”. 

Dopo una settimana è ancora emergenza, le tubature dell’acqua sono distrutte, la rete fognaria a pezzi, i palazzi cumuli di macerie, la cuoca da poche decine di pasti oggi nel cucina 1,000 al giorno, per tutti. “Adesso l’acqua del mare si è ritirata - spiega - ma di tutti i palazzi alti, a più piani, anche dei quartieri ricchi, non è rimasto nulla. Si scava fra le macerie, e da un paio di giorni è emerso il fenomeno dello sciacallaggio, gruppi che provengono da fuori per derubare i negozi e nelle abitazioni”. “La nostra è una situazione surreale, ma viviamo giorno per giorno affrontando i bisogni quotidiani e senza pensare al futuro. Poi, quando avremo superato questa fase, serviranno progetti di lungo periodo di ricostruzione, partendo dalla cattedrale che è la casa di tutti. Infine, dobbiamo continuare - conclude - ad occuparci dei tantissimi rifugiati [da Siria, Iran, Iraq, Afghanistan] che si erano affidati a noi: come Caritas Anatolia non possiamo abbandonarli e come recita il motto di Sant’Ignazio, dobbiamo arrivare dove nessuno può o vuole arrivare”. 

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