I toni esagerati e il vuoto di contenuti hanno prodotto un effetto soporifero e mortifero nell’animo dei cittadini russi, in preda allo sconforto per i timori di nuove coscrizioni obbligatorie. E una surreale diatriba web sul gorgonzola descrive, meglio di qualunque altro esempio, il desiderio dei russi di “non essere coinvolti”, di ribellarsi ai sensi di colpa e scrollarsi di dosso le retoriche dei “valori tradizionali”.
Tutto il mondo guarda con ansia all’Ucraina, avendo superato il primo anniversario dell’invasione russa, sperando che non si arrivi al secondo. Si moltiplicano gli interventi e gli appelli dalle più alte e nobili sedi, dai continui appelli di papa Francesco alla risoluzione dell’Onu per la cessazione del conflitto, votata da tutti tranne pochi Paesi amici della Russia, a cui si è aggiunto il Mali, a testimonianza dei successi in Africa della compagnia Wagner, ben più eclatanti di quelli in Ucraina. India e Cina si sono nuovamente astenute, e da Pechino giungono elaborate proposte di pace universale, in cui si dice che bisogna proteggere l’Ucraina, ma non condannare la Russia, visto che la guerra è stata istigata dall’America.
I leader del G7 si riuniscono a distanza insieme all’eroe dell’Occidente, il presidente ucraino Zelenskyj, icona moderna dei valori della libertà e della democrazia, contro cui si scaglia il sempre più assatanato Putin dal palco del Senato e dello stadio Lužniki di Mosca. Sembra evidente che nessuna trattativa di pace sia possibile tra i due grandi antagonisti, che rievocano in piega grottesca il confronto tra Churchill e Hitler. Semmai ci potrà essere un accordo globale tra Biden e Xi Jinping, nella posa di Roosevelt e Stalin, a inaugurare la nuova guerra fredda del terzo millennio, magari riunendosi di nuovo a Jalta in Crimea, teatro della “neutralità armata” tra Oriente e Occidente.
I proclami putiniani assumono tinte grandguignolesche, nelle canzoni popolari di epoca sovietica riscritte con versi lugubri e invasati, come le cartoline della “danza macabra europea” che ricordano la fine della prima guerra mondiale, a cui tanto assomiglia la trincea russa in Ucraina. Ai centomila ebbri sostenitori, radunati con generose mance a quindici gradi sottozero, Putin regala visioni mistiche del “Padre nostro”, pregando il quale ci si trasforma in una vera Patria e Famiglia, non come il dio “gender fluid” degli anglicani, le cui liturgie trasformerebbero gli uomini in pedofili depravati. Il patriarca Kirill benedice il presidente, nel giorno dei “difensori della patria”, il nuovo titolo della festa dell’Armata Rossa, che segnava in tempi sovietici il “trionfo del maschio” del 23 febbraio, prima del femminismo di Stato dell’8 marzo. Secondo il capo degli ortodossi patriottici, “grazie ai grandi sacrifici dei nostri predecessori è stato difeso il diritto alla vita, alla libertà e all’indipendenza del nostro Paese, su cui soffia il vento della gloria imperitura, impressa per sempre nelle cronache della storia patria… onoriamo la memoria di chi ha forgiato l’oro della vittoria, dalle retrovie alla prima linea del fronte, con coraggio e ardimento, dedicando la propria vita al servizio della Patria”.
Si attende quindi la grande avanzata dell’armata putiniana, che giunga finalmente a Kiev come i battaglioni del maresciallo Žukov nel 1945 a Berlino. Eppure il leader supremo non giunge a promettere tanto, limitandosi alle lagne sui dispetti dell’America e scatenando la rabbia del “cuoco” Prigožin, che pur di dimostrare la sua superiorità su tutti i generali russi si scaglia con i suoi mercenari contro l’ennesimo misero villaggio ucraino, sperduto tra i fanghi degli affluenti del Don. Putin ha parlato per ore senza suscitare alcuna vera emozione, e solo il ferreo controllo dei servizi fotografici e televisivi ha evitato di mostrare gli sbadigli dei gerarchi incatenati alle poltrone del Consiglio federale, a partire proprio dal patriarca Kirill. La più grande minaccia putiniana è stata il rifiuto di ammettere gli ispettori occidentali alle riserve di armamenti atomici, forse per risparmiarsi la vergogna della loro approssimativa manutenzione.
I toni esagerati e il vuoto di contenuti hanno prodotto un effetto soporifero e mortifero nell’animo dei cittadini russi, in preda allo sconforto per i carichi di tombe che giungono dall’Ucraina (per lo più di soldati asiatici e caucasici), per i timori di nuove coscrizioni obbligatorie e la difficoltà di trovare altre vie di fuga, e l’inevitabile crisi economica ben poco scongiurata dalle vuote promesse putiniane di un rinascimento autarchico del commercio e dell’industria. La noia e la depressione inducono la maggior parte dei russi a vivere da zombie, rifugiandosi nella politica dello struzzo, facendo finta che tutto questo non li riguardi, e cercando distrazioni sacre e profane per non essere coinvolti nell’incubo senza fine.
Si avvicina la Quaresima ortodossa, i fedeli si dedicano a friggere i tanto amati bliny, da consumare con panna acida, caviale e pesce crudo, ben innaffiati di vodka, prima dell’inizio formale del Grande Digiuno. La variante cattolica si dedica ai pončiki, le frittelle di tradizione polacca, più dolci e aggraziate delle indigeste crespelle russe. E allora, nei giorni della celebrazione isterica della guerra patriottica, il meme più popolare su cui si è concentrata l’attenzione della popolazione russa è stato quello della “guerra del gorgonzola”. Gli utenti di Twitter si sono scatenati nel commento alla “drammatica” disfida tra la popolare giornalista Alena Donetskaja e il pubblicista Nikolaj Solodnikov sul canale YouTube di quest’ultimo. Sotto il titolo “Bellezza e Vergogna” di disquisisce sull’opportunità di usare l’odoroso formaggio con la muffa sulle frittelle. Nikolaj osa addirittura proporre la degustazione del gorgonzola insieme al frutto esotico della maracujà, suscitando lo sdegno di Alena: “Non si possono mescolare due drammi, il gorgonzola uccide tutto ciò che è vivo, perfino l’aroma della maracujà… al massimo puoi accostare un giovane groviera!”.
Molti commenti hanno fatto notare che non è il caso di discutere animatamente di gusti improbabili con tale foga, mentre la maggior parte della popolazione “non ha nemmeno la possibilità di provare questi ingredienti”. Lo scandalo quindi non si rivolge tanto al dramma della guerra e dei morti, ma piuttosto allo snobismo della “fuga nei cibi strani”, mentre molti altri intervengono segnalando gli indirizzi dei negozi dove, nonostante tutte le sanzioni del mondo, “si può comprare sia il gorgonzola che la maracujà, e a prezzi tutto sommato accettabili”. Alena e Nikolaj discutono in un elegante soggiorno, fumando una sigaretta dietro l’altra e accompagnando la disputa con brani classici al pianoforte, esaltando proprio la fuga dalla realtà, dal sangue e dal gelo, dai canti barbarici e dalle benedizioni sacrileghe allo stadio.
La diatriba del gorgonzola descrive, meglio di qualunque altro esempio, il desiderio dei russi di “non essere coinvolti”, di ribellarsi ai sensi di colpa e scrollarsi di dosso le retoriche dei “valori tradizionali”, sostituiti da sapori estranei a ogni morale e a ogni cultura. Un’altra immagine simbolica, che ha suscitato diffusa ilarità sulla rete, è quella del deputato comunale di Samara Mikhail Abdalkin, che ha postato un video in cui assiste da computer al discorso di Putin al Senato con degli spaghetti scotti appesi alle orecchie (in russo “versare spaghetti negli orecchi”, lapša na uši, significa “inondare di fandonie”), affermando di “essere d’accordo su tutto, davvero un bel discorso”. I comunisti locali hanno chiesto la sua destituzione e il suo arresto per “diffamazione e tradimento dello Stato”. Se gli ucraini scoprono l’eroismo della resistenza, i russi reagiscono con la farsa dell’indifferenza, che più di ogni altra cosa attesta dell’inefficacia dell’aggressione putiniana, destinata a spegnersi tra un bicchiere e una padella nelle cucine, o nei salotti, di una popolazione sempre più cinica e lontana dalle sue “guide spirituali”.
Ai tempi sovietici il dissenso aveva due forme, una pubblica ben conosciuta in Occidente, quella degli scrittori e dei poeti, da Sinjavskij a Solženitsyn, che declamavano poesie antisovietiche nelle piazze di Mosca, o denunciavano i crimini dei lager staliniani nei grandi romanzi. Era anche il dissenso politico e liberale di Ginzburg e Sakharov, che invocavano la fine del totalitarismo, e che oggi vengono nuovamente condannati e repressi nei pochi eredi che hanno avuto il coraggio di alzare pubblicamente la voce.
Esisteva però anche un dissenso silenzioso e interiore, che si basava sulla non-resistenza (nieprotivlenčestvo) predicata nell’Ottocento dal grande scrittore Lev Tolstoj. Il rifiuto della dittatura non si esprimeva con azioni clamorose e rivolte al “mondo libero”, che venivano anzi quasi disprezzate, ritenute una ricerca di fama e successo, rivolta a chi comunque non conosce e non capisce la Russia. Era il dissenso dei professori universitari, che si dedicavano allo studio della letteratura o della fisica, cercando una verità più grande delle ideologie; ma era anche il dissenso della gente comune, degli impiegati e delle casalinghe, consapevoli di essere soggiogati dal fanatismo dei potenti, ma restii a concedere soddisfazioni sia ai propri carcerieri, sia ai presunti liberatori, portatori di slogan e ideologie altrettanto vane e altisonanti. È la Russia profonda, che sopravvive nel letargo dell’inimicizia del mondo, in attesa di una nuova vita.
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