Colombo, rifugiati in piazza sotto la sede Unhcr per ‘accelerare’ i ricollocamenti
di Melani Manel Perera

In Sri Lanka vi sono 800 rifugiati provenienti da Pakistan, Rohingya del Myanmar, afghani, siriani e yemeniti. La probabile chiusura, o comunque il ridimensionamento, della sede dell’organismo Onu alimenta le incertezze per il futuro. La maggioranza vive da anni sospesa in un limbo, senza lavoro né istruzione per i figli. 


Colombo (AsiaNews) - Rilanciare, ma soprattutto velocizzare “il processo di ricollocamento in una nazione terza” per scongiurare ulteriori sofferenze. È la richiesta di un gruppo di rifugiati affidato alle cure dell’Unhcr, scesi in piazza il 23 maggio di fronte alla sede dell’agenzia Onu a Colombo per sensibilizzare le autorità locali e la comunità internazionale sulla loro sorte, da tempo sospesa in un limbo. “Prendete una decisione il più in fretta possibile - recitava lo slogan impresso su un cartello - e non rimandateci indietro, incontro a morte certa”. 

In prima fila a guidare la protesta vi era un gruppo di profughi pakistani, da tempo ricollocati sull’isola e in attesa (sinora) vana di una sistemazione definitiva. Secondo le stime dell’attivista Ruki Fernando, ad oggi in Sri Lanka vi sono circa 800 rifugiati provenienti in maggioranza da Pakistan, Afghanistan, Rohingya dal Myanmar, oltre a gruppi originari dello Yemen, della Siria e dalla Nigeria. I più vivono a Negombo, oltre a Panadura, Dehiwela e Mount Lavinia.

I manifestanti hanno voluto ricordate che “i rifugiati sono esseri umani, non numeri. Garantiteci una sistemazione” come recitava una delle tante scritte impresse sui cartelloni. Un altro affermava che “Rimandandoci indietro, state violando il nostro diritto di vivere” e ancora “Non dividete i rifugiati in comunità diverse. Tutti siamo uguali e meritiamo dignità e rispetto”. Alcuni non hanno risparmiato attacchi diretti all’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, che “deve smetterla di lasciarci in attesa di una risposta” che non è mai arrivata negli anni. 

“Per lo Unhcr - afferma ad AsiaNews una manifestante proveniente dal Pakistan - non siamo una priorità, ma quanto possiamo aspettare? Sono già sette anni che siamo qui in Sri Lanka in attesa. Ne abbiamo abbastanza, vogliamo giustizia”. “Abbiamo bambini piccoli e nemmeno loro - aggiunge la donna - hanno un futuro. Non hanno scuole qui. Nemmeno io conosco il mio futuro. Chiediamo di accelerare il nostro ricollocamento”. 

Una seconda donna, anch’essa pakistana, dice di trovarsi da 10 anni in Sri Lanka e non ha ancora prospettive certe sul suo futuro o una nazione in cui andare. “Qui non lavoriamo. I nostri figli non vanno a scuola e non hanno un’istruzione” denuncia, aggiungendo che il timore più grande è “una chiusura a breve dell’ufficio Unhcr” e “senza un loro sostegno, che ne sarà di noi?” si chiede disperata. Un altro ancora, sempre dal Pakistan, racconta del padre morto in questo tempo nell’attesa vana di andare in un’altra nazione, della madre che soffre di diabete e il figlio 14enne anch’esso soggetto a pressione alta, che sopravvive grazie a medicine assunte mattina e sera. “Per favore, mandaci - esclama l’uomo - in un Paese del terzo mondo. Qui non possiamo lavorare. Ed è molto difficile comprare generi alimentari. Il cibo, le medicine e l’affitto della casa sono molto alti. Non possiamo vivere qui”. 

“Una delle richieste di queste persone - spiega l’attivista Ruki Fernando - è che la decisione sia presa il prima possibile. Alcuni aspettano da anni una sistemazione definitiva. Ciò significa che non sanno se otterranno asilo o meno”. Ad alimentare paure, timori e incertezza sul futuro, conclude, la notizia anticipata dagli stessi funzionari Unhcr di una possibile chiusura della sede Onu o, comunque, di un forte ridimensionamento del sostegno e degli aiuti. 

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