I dieci anni del Maidan, inizio di un mondo nuovo
di Stefano Caprio

Ricordata con molta passione in questi giorni in Ucraina, e con profondo astio in Russia, la “rivoluzione della dignità” ha messo in gioco non solo gli interessi geopolitici ed economici, ma soprattutto quelli più profondi, morali e spirituali prima ancora che ideologici, del popolo ucraino e delle varie frazioni del “mondo russo”.


Sono stati ricordati con molta passione in questi giorni in Ucraina, e con profondo astio in Russia, le giornate della sollevazione popolare del Maidan Nezaležnosti, il “Raduno della Libertà” iniziato il 21 novembre 2013, quando al centro di Kiev si riunirono studenti, attivisti e giornalisti per protestare contro la decisione del governo di Viktor Janukovič di bloccare la firma dell’accordo di associazione all’Unione europea. Per questo la manifestazione è poi stata chiamata anche Euromaidan, indicando non soltanto le aspirazioni degli ucraini verso l’Occidente, ma soprattutto la chiamata alla responsabilità dell’Europa stessa, per esprimere pienamente la propria identità.

Le rievocazioni di quei giorni drammatici portano a rivedere tutti i passaggi che hanno condotto all’inizio della nuova era di “guerra mondiale”, dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia all’assalto dei terroristi di Hamas contro Israele, legando eventi e circostanze che sembravano lontani nel tempo e nello spazio, e che ora si accavallano e intersecano sempre più, aprendo alla comune apprensione sul “nuovo ordine mondiale” che ne dovrà scaturire, secondo visioni e polarizzazioni opposte e sempre più contraddittorie. E soprattutto gettano una luce ulteriore sul futuro del continente europeo, le cui elezioni parlamentari del 2024 non si limiteranno a rimescolare le alleanze più o meno tradizionali, ma costringeranno tutti a ripensare al ruolo del proprio popolo, nazione o regione, alla propria coscienza di cittadini e gruppi sociali, perfino di militanti o anti-militanti di una guerra globale.

Il Maidan è stato chiamato anche la revoliutsija gidnosti, la “rivoluzione della dignità”, mettendo in gioco non solo gli interessi geopolitici ed economici, ma soprattutto quelli più profondi, morali e spirituali prima ancora che ideologici, del popolo ucraino e delle varie frazioni del “mondo russo”. In tre mesi di occupazione del Maidan, un termine di origine turcica che indica lo “spazio libero”, morirono 104 manifestanti e 17 collaboratori delle forze dell’ordine, il presidente Janukovič fuggì in Russia e si tennero delle elezioni anticipate che promossero i fautori dell’integrazione europea; qualche settimana dopo, a inizio marzo la Russia organizzò l’annessione della Crimea e iniziò il conflitto nel Donbass, la guerra ibrida poi diventata conflitto totale.

Per Vladimir Putin e i suoi sostenitori il Maidan è diventato il principale spauracchio dei mali del mondo, una sensazione che si era già diffusa negli animi sempre più esasperati dei russi fin dalla “rivoluzione arancione” in Ucraina del 2004, quando per la prima volta la “piccola Russia” aveva preso il corso della rottura con Mosca e della sintonia con l’Europa. Da quel momento la Russia si è sentita minacciata, e hanno cominciato a risuonare gli slogan aggressivi che invocano la fondazione di un “mondo multipolare”, e allo stesso tempo sono iniziate le repressioni sempre più esplicite contro le opposizioni interne. Era la fine del primo mandato di Putin, quello apparentemente conciliante e aperto alla collaborazione con tutti, ma già si intravvedevano i segnali del cambio di rotta che ha portato alla situazione attuale.

Nel 2004 gli scontri politici si erano conclusi con un compromesso tra filo-russi e filo-europei, capeggiati da Janukovič e da Viktor Jušenko che assunse la presidenza, coinvolgendo l’avversario nella gestione del governo. Sullo sfondo rimase lo scisma tra le regioni orientali e quelle meridionali dell’Ucraina, che pendevano verso Mosca, e quelle “occidentaliste” del nord e dell’ovest. Le macchine propagandistiche, da una parte e dall’altra, aggravarono le tensioni tra i due campi fino al 2010, quando Janukovič vinse le elezioni ringraziando il “clan del Donbass”, il gruppo degli oligarchi e uomini d’affari molto legati a Mosca che occuparono le stanze del governo, facendo scivolare tutta l’economia ucraina in un vortice di corruzione e soprusi. Oltre alla “scelta di campo” questo ha generato nella società ucraina una forte tensione populista, di protesta contro tutte le istituzioni ritenute indegne e corrotte, impersonata infine dall’attore anti-casta Volodymyr Zelenskyj, poi divenuto leader militare della resistenza estrema in un forzato cambio di ruolo, ma tuttora impegnato nella lotta interna alla corruzione.

La corruzione porta alla riduzione delle libertà civili, come è risultato evidente nel triennio di Janukovič, e la spinta verso l’Europa non era tanto generata da una scelta ideologica, quanto dalla necessità di recuperare un modello accettabile di convivenza sociale. Questo fattore oggi viene soffocato dai proclami apocalittici e dalle astrazioni metafisiche sui “valori tradizionali”, ma al di là di tutto rimane il vero problema da affrontare nell’intero mondo globalizzato, dall’America alla Russia, dall’Africa alla Cina, come dimostrano le sorprendenti svolte populiste di questi anni. Da Donald Trump a Jair Bolsonaro, fino ai recenti Javier Milei in Argentina e Geert Wilders in Olanda, i leader “del popolo” incarnano la rabbia e la frustrazione causate da un sistema economico sempre più diffuso, che impoverisce le masse per arricchire le caste, e alla fine la vera guerra è comune a tutte le latitudini: è la guerra per la giustizia sociale, comunque la si voglia intendere.

Putin ebbe buon gioco a definire il Maidan un “colpo di Stato”, essendo ancora da discutere la legittimità della cacciata di Janukovič e del cambio di regime, spostando l’attenzione sulla sfera geopolitica e ignorando le vere aspirazioni dei cittadini. In un certo senso, si potrebbe dire che anche le posizioni radicali dei terroristi di Hamas e del governo super-conservatore di Bibi Netanyahu offuscano la realtà della vita nei territori di Israele e di Gaza, riducendo tutto a uno scontro etnico ed epico, supportato da fantasmi religiosi esattamente come le guerre di Putin. Saltano in questo modo le responsabilità verso accordi e convenzioni nazionali e internazionali, giustificando ogni forma di violenza e dittatura.

Il Maidan è un fenomeno molto ucraino, come la guerra di Gaza è legata all’eterno conflitto tra Israele e i palestinesi, ma la loro standardizzazione permette a tutti i centri di potere del mondo, politici, militari e informativi, di usare fenomeni locali per imporre degli schemi globali. I cambiamenti che questi conflitti provocano già ora in Ucraina, e non si sa come modificheranno la vita nei Paesi del Medio Oriente, devono invece suscitare un’attenzione alla realtà, piuttosto che alle motivazioni propagandistiche. Un’economia trasparente e sostenibile, una giustizia equilibrata e non politicizzata, una comunicazione globale dei mercati e dei popoli senza soffocanti monopoli, un ruolo non inutilmente enfatizzato delle comunità religiose o artificiosamente polarizzato dei movimenti politici: insomma, serve un nuovo modello di società, che ciascuno deve imparare e regolare in base alla propria casa, alla propria nazione, al proprio continente. Bisogna ripartire dal Maidan di ogni Paese, non lasciare che le tragedie di questi anni lascino solo macerie e cumuli di cadaveri.

E più di tutti serve un vero “Euromaidan”, non centripeto, ma sempre più “in uscita”. L’Europa non acquista maggiore forza soltanto aggregando e assorbendo altri Stati e altri territori, essendo la sua natura non propriamente geografica (quali sono i veri confini, le vere “ucraine” europee?), ma principalmente storica, culturale e religiosa. Riflettere sugli avvenimenti più recenti è solo il punto di partenza per riscoprire le dimensioni più profonde della coscienza, il “chi siamo” e da dove veniamo, più che “dobbiamo uscirne” al più presto.

La frattura tra russi e ucraini non è infatti un fenomeno nuovo e improvviso, per non parlare del conflitto tra gli ebrei e i loro vicini, con tutte le deportazioni, le fughe e le diaspore che accompagnano gli stermini e le distruzioni. Le trattative di pace non risolveranno nulla delle ragioni di questi conflitti, se non cercando di impedire ulteriori massacri e devastazioni. Lo “stato di guerra” fa gioco a chi non vuole concedere agli uomini e ai popoli di essere protagonisti della vita nella propria società e nel mondo intero, e per trovare la vera pace non bastano le trattative o le concessioni. Serve un’assunzione di responsabilità di ciascuno, donne e uomini di tutte le parti in conflitto, una “sinodalità” non confinata agli ambiti ecclesiastici, ma aperta al contributo di chiunque voglia impegnarsi per ricostruire la propria casa, la propria nazione, di costruire un mondo nuovo.

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