Pechino vieta il reclutamento di nuovi monaci in Tibet

Le autorità cinesi hanno proibito l’ammissione di nuovi religiosi nel monastero di Khyungbum Lura, che negli anni '50 si era opposto all'Esercito di liberazione popolare. Mentre i residenti locali hanno espresso preoccupazione, la Cina ha reso la propria repressione sempre più capillare, adottando strategie di raccolta di dati sulla popolazione come nello Xinjiang.


Dharamsala (AsiaNews/Agenzie) - Le autorità cinesi hanno vietato l’ammissione di nuovi monaci nel monastero di Khyungbum Lura, nel Tibet orientale. È la prima volta che Pechino proibisce l’iscrizione di monaci di tutte le età, mentre era già in vigore un divieto impedisce ai minori di 18 anni potessero unirsi all’ordine monastico in Tibet, hanno spiegato alcune fonti anonime di Radio Free Asia. Si tratta di una misura che rientra tra gli sforzi per garantire l’applicazione del cosiddetto “regolamento sugli affari religiosi”, che stabilisce che nessuna attività religiosa può essere svolta nelle scuole o negli enti educativi del Tibet.

I residenti locali hanno espresso preoccupazione: “Senza il ricambio regolare di nuovi monaci, si arriverà in futuro al declino e alla chiusura del monastero, lasciando i tibetani locali senza luoghi di culto nelle vicinanze durante importanti cerimonie religiose e senza nessuno a cui rivolgersi per svolgere preghiere rituali, in particolare in occasione della morte di persone care”, hanno commentato altre fonti locali. Sulla stessa scia, le autorità cinesi hanno anche inserito un amministratore locale all’interno del monastero per supervisionare tutte le attività, minacciando di chiudere il sito in caso di mancato rispetto dei regolamenti. 

Da sempre Pechino cerca di limitare l’influenza dei monasteri buddhisti in quanto importanti luoghi di costruzione dell’identità nazionale tibetana. Il monastero di Khyungbum Lura, in particolare, è uno dei più grandi monasteri della scuola Gelug, chiamata anche dei Berretti gialli, storicamente legata alla contea di Markham, dove al giorno d’oggi vivono più di 80 monaci. Quando l’Esercito di liberazione popolare marciò sul Tibet orientale, nella prefettura di Chamdo, nel 1950, il monastero resistette per circa sei anni contro i soldati cinesi. 

Anche al confine con l’Arunachal Pradesh, che per l’India è un proprio Stato e per la Cina fa parte del Tibet, Pechino ha intensificato la propria presenza sul territorio: secondo un’analisi di immagini satellitari fatta da Newsweek, dal 2020 è sorta una vasta rete di villaggi nella città di Nyingchi, che si trova sulla frontiera tra i due Stati.

E non finisce qui: come nella regione autonoma dello Xinjiang, abitata dagli uiguri, anche in Tibet il controllo sulla popolazione locale negli anni è diventato sempre più sofisticato. Di recente, l’azienda di biotecnologie statunitense Thermo Fisher Scientific ha annunciato di aver sospeso la vendita di kit per la raccolta del DNA dopo aver ricevuto per mesi critiche da parte dei gruppi di difesa dei diritti umani e del Congresso americano. La tecnologia dell’azienda veniva infatti utilizzata dalla Cina allo scopo di costruire un database genetico della popolazione locale: “Sulla base di una serie di fattori abbiamo preso la decisione, a metà del 2023, di cessare le vendite di prodotti di identificazione umana nella regione autonoma del Tibet", ha detto ad Axios un portavoce di Thermo Fisher. I kit per la raccolta del DNA, ha aggiunto, hanno “importanti applicazioni forensi, dal rintracciare i criminali, al fermare il traffico di esseri umani, alla liberazione degli individui incriminati ingiustamente” e le vendite in Tibet erano “proporzionate alle indagini forensi di routine in un'area di queste dimensioni”.

Eppure Pechino oscura la questione del Tibet dai social allo stesso modo della repressione nello Xinjiang o a Hong Kong. Una recente indagine condotta dal Network Contagion Research Institute della Rutgers University ha svelato che sulla piattaforma TikTok, di possedimento della compagnia cinese ByteDance, questi argomenti non appaiono tanto di frequente quanto su Instagram, di proprietà di Meta, invece. La ricerca afferma che nel caso di argomenti pop o di politica (caratterizzati da hashtag generici come #TaylorSwift e #Trump) la ratio è di circa due post su Instagram per ognuno su TikTok. Ma il rapporto cambia totalmente quando gli hashtag si riferiscono ad argomenti sgraditi a Pechino, come #Uyghur, per il quale il rapporto è di 8 a 1, o #TiananmenSquare con 57 a 1 fino ad arrivare a 174 a 1 per #HongKongProtest. Nel caso del #Tibet il rapporto è di 30 a 1.

“Sosteniamo la possibilità che i contenuti su TikTok siano amplificati o soppressi in base al loro allineamento con gli interessi del governo cinese”, conclude l’indagine. Joel Finkelstein, fondatore del Network Contagion Research Institute, ha affermato che “non è possibile che questo possa accadere in maniera spontanea”. 

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