Il 'genocidio' universale del popolo sovietico
di Stefano Caprio

Il 27 gennaio, Giorno della Memoria della Shoah a livello internazionale, per la Russia è anche la Memoria della fine dell’assedio di Leningrado. Così oggi l'Olocausto viene reinterpretato dai russi non più come sterminio degli ebrei, ma come crimine nazista verso diversi popoli, a cominciare appunto dai sovietici. E nella versione kirillo-putiniana Mosca viene presentata come il bastione della difesa dal “genocidio egemonico” degli occidentali.


Nei giorni scorsi si è tenuto a San Pietroburgo un incontro tra Vladimir Putin e Aleksandr Lukašenko, per discutere delle prospettive dello “Stato unitario” tra Russia e Bielorussia, a cui i due presidenti vorrebbero unire anche l’Ucraina “de-nazificata”. A questo proposito è stata organizzata una cerimonia particolare, con l’inaugurazione di un grande complesso monumentale “In memoria dei pacifici abitanti dell’Urss – vittime del genocidio nazista negli anni della Grande Guerra patriottica del 1941-1945”, applicando per la prima volta in modo solenne il termine “genocidio” ai destini del “popolo sovietico”, l’archetipo dello Stato unitario che ora si vuole restaurare con le “operazioni speciali militari”.

Questa nuova concezione vuole anche sostituire tutta la retorica dell’Olocausto, che non viene più riferito agli ebrei, ora in disgrazia agli occhi dei russi in quanto rappresentanti dell’Occidente nemico nel conflitto con i palestinesi della Striscia di Gaza, questi sì associati alla nuova comprensione del “genocidio”. In una visione globale di contrapposizione tra i fronti di una Grande Guerra contemporanea, i russi si attribuiscono l’immagine non soltanto degli eroi della Vittoria, ma anche delle “vittime bisognose di Vendetta”, come osserva lo storico Konstantin Pakhaljuk su Novaja Gazeta Evropa.

Il 27 gennaio, Giorno della Memoria dell’Olocausto a livello internazionale, per la Russia è anche la Memoria della fine dell’assedio di Leningrado, una vera tragedia e un reale atto di sterminio da parte dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale, con centinaia di migliaia di vittime degli scontri e della fame patita durante i 900 giorni del blocco della capitale del nord. Se ancora l’anno scorso Putin aveva incontrato i rappresentanti delle comunità ebraiche, parlando del significato universale dell’Olocausto del popolo ebraico, quest’anno non ha neppure accennato a nulla di diverso rispetto alle sofferenze del popolo sovietico, promettendo solennemente di condurre fino in fondo la lotta per lo sradicamento del “nazismo nel mondo contemporaneo, in ogni Paese e comunque esso si chiami”. Il riferimento non era soltanto all’Ucraina, ma a una visione del conflitto mondiale, anche con accenni espliciti ai Paesi baltici, nei confronti dei quali aumenta ogni giorno la tensione da parte della Russia. E pensare che il 27 gennaio fu stabilito dall’Onu nel 2005 proprio come atto di rispetto nei confronti della Russia, ricordando come in quel giorno del 1945 l’Armata Rossa aveva liberato il lager di Auschwitz dall’orrore nazista verso gli ebrei.

Oggi l’Olocausto viene reinterpretato dai russi non più come sterminio degli ebrei, ma come crimine nazista verso diversi popoli, a cominciare appunto dai sovietici. Questa è la tesi esposta nei giorni scorsi dall’Associazione russa storico-militare e dall’Istituto di Storia dell’Accademia delle Scienze di Mosca, e risuonata anche nell’intervento dello speaker della Duma di Stato, Vjačeslav Volodin. Un intervento della portavoce del ministero russo degli esteri, Maria Zakharova, ha creato in questo senso uno scandalo diplomatico con Israele, ripetendo che “l’Olocausto non è soltanto una tragedia degli ebrei”, in quanto i nazisti uccidevano anche molte persone di altra nazionalità, e avvicinandosi quasi al negazionismo per cui non ci fu nulla di speciale contro gli ebrei, nell’insieme delle persecuzioni e dei massacri da parte dei nazisti.

Perfino i media russi sono apparsi impreparati rispetto a questa svolta interpretativa della “storia del genocidio”, pubblicando in questi giorni servizi tradizionali sulla storia dell’Olocausto degli ebrei, come ad esempio su Ria Novosti e Izvestija. La Rossijskaja Gazeta, giornale del governo di Mosca, ha scritto che i nazisti sterminavano “su base etnica solo gli ebrei e gli zingari”, e anche sui cosiddetti Z-social più accaniti nel sostenere la guerra del Cremlino non vi sono stati accenni al “genocidio del popolo sovietico”. Il Congresso ebraico russo ha tenuto la sua tradizionale Settimana della Memoria, con le manifestazioni al centro Kholokost, e perfino Putin ha inviato un saluto al Museo ebraico, che peraltro non è stato pubblicato sul sito ufficiale della presidenza. In compenso la stampa russa è insorta contro la presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, per la sua dichiarazione sulla “liberazione del lager di Auschwitz da parte dei soldati dell’Unione”, senza specificare “dell’Armata Rossa”, quasi si trattasse soltanto di un’iniziativa russo-sovietica.

Del resto, l’abuso del termine “genocidio” è ormai evidente a varie latitudini, insieme alla marginalizzazione della tragedia degli ebrei. Per giustificare l’operazione militare speciale iniziata due anni fa, fu il patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev) a usare per primo la definizione di “genocidio del popolo ucraino” dovuto alle presunte persecuzioni dei russofoni nel Donbass. Il patriarca, che il 1° febbraio ha festeggiato i 15 anni della sua intronizzazione, ha usato più volte questa espressione in varie circostanze, soprattutto per denunciare il genocidio dei cristiani costretti a fuggire dal Medio oriente e dalla Siria, a motivo delle guerre islamiche. Il genocidio viene inteso come “sradicamento” di gruppi etnici, nazionali, culturali o religiosi, da estendere a ogni forma di politica coloniale che opprime e cancella le diverse identità.

La Russia con la sua storia imperiale e sovietica dovrebbe quindi essere uno dei massimi modelli di “genocidio colonialista”, mentre nella versione kirillo-putiniana essa viene presentata come il bastione della difesa dal “genocidio egemonico” degli occidentali. Gli anglosaksy pretenderebbero di imporre una visione del mondo e un sistema di vita preconfezionato e omologato, mentre i russi esaltano i “valori tradizionali” di ogni popolo e religione, ispirati dalla Ortodossia salvifica del Mondo Russo. Per sostenere questa teoria mitologica è necessario un continuo revisionismo storico, che ad ogni occasione propone una lettura diversa da quella degli avversari e dei loro sudditi. Il “genocidio del popolo sovietico” ha quindi la sua evidenza non tanto e non soltanto nel sacrificio di tante persone di fronte all’invasione dell’esercito hitleriano, ma nella forzata separazione tra russi e ucraini, tentata dai nazisti e riuscita agli americani dopo la fine dell’Unione Sovietica, anzi creando lo “Stato artificioso” dell’Ucraina sottomessa all’Occidente.

Il patriarca insiste su questa tentazione della divisione rileggendo anche i secoli precedenti, insieme ad altri esponenti della Chiesa russa, come ha fatto per anni il metropolita Ilarion (Alfeev, ora esiliato in Ungheria ad majorem Kirilli gloriam), scagliandosi contro gli “uniati” greco-cattolici come i veri ispiratori, fin dal 1600, del “colpo di Stato del Maidan” fomentato dagli occidentali. La demonizzazione e de-umanizzazione degli ucraini va di pari passo con la loro riduzione a capro espiatorio per le azioni dei “nazisti” e “fascisti” globali e collettivi, le nuove categorie di lettura della realtà contemporanea, a cui si associa perfettamente la descrizione rovesciata del conflitto tra israeliani e palestinesi. Il genocidio diventa così il “richiamo della foresta”, il fischio per addomesticare il cane rabbioso, un termine per attirare tutti coloro che provano sentimenti di rancore verso i padroni del mondo, che si sentono a propria volta emarginati e oppressi, quindi assolutamente adatti a diventare membri del mondo russo.

Le celebrazioni del giubileo patriarcale diventano allora una consacrazione della guerra “ortodossa”, intesa come reazione ad ogni attentato degli eretici simili agli iconoclasti dell’VIII secolo che negavano la raffigurazione di Cristo e dei santi, la cui sconfitta diede origine alla festa liturgica del Trionfo dell’Ortodossia, più volte richiamata da Kirill anche in relazione proprio alla guerra in Ucraina. Il sito ufficiale del patriarcato di Mosca presenta quindi le statistiche “trionfali” del patriarcato kirilliano, iniziato del resto quando la Russia putiniana cominciava le sue campagne contro i “genocidi” nelle terre caucasiche, invadendo parte della Georgia. Si proclama che “il territorio canonico della Chiesa ortodossa russa comprende 16 Paesi, e le sue parrocchie sono attive in altri 87 Stati, così che la Chiesa russa è oggi presente in 103 Paesi del mondo”. Dalle 159 eparchie del 2009 si è giunti alle 325 di oggi, aggiungendo i tre grandi esarcati del “lontano estero” in Europa occidentale, Asia sud-orientale e Africa, per un totale di 62 metropolie e 400 vescovi, il doppio di 15 anni fa, e un aumento dei sacerdoti da 30 mila a oltre 40 mila. Per non parlare dei monasteri, oggi oltre mille in tutto il mondo.

La Chiesa di Kirill è l’anima della Russia di Putin e Lukašenko, della “vera Ucraina” che torna alle origini della Rus’, dei continenti “russificati” non più soltanto dalla lingua e dalla politica, ma dal rifiuto del “genocidio” non più del passato reale, ma di un futuro immaginario; un’icona sacra da dipingere a immagine e somiglianza di chi ne sarà padrone ed esarca.

 

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