Il gesuita israeliano in un saggio pubblicato da La Civiltà Cattolica: "Lo scontro sulla giustizia e quello sulla guerra a Gaza portato in piazza dalle famiglie degli ostaggi mostrano la fine del sionismo nato nel XIX secolo. Serve una nuova sintesi che riparta da ebrei di radice orientale, ultra-ortodossi, arabi isrealiani e immigrati russi per un nuovo sguardo anche sui palestinesi".
Città del Vaticano (AsiaNews) – Lo scontro sulla giustizia prima e la dura guerra con i palestinesi a Gaza in risposta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre stanno rimettendo in discussione l’identità profonda di Israele. Con una crisi su cui le tradizionali élite ashkenazite - discendenti dell’ebraismo europeo dove il sionismo si forgiò alla fine del XIX secolo - si dividono tra loro. Ma non troveranno mai risposte, finché non faranno i conti davvero con le “periferie” che in realtà oggi costituiscono la grande maggioranza della popolazione di Israele.
A sostenerlo è il gesuita israeliano p. David Neuhaus in un saggio intitolato “Israele, dove vai?” che apre il numero in uscita della rivista La Civiltà Cattolica. Sessantun’anni, nato a Johannesburgh da una coppia di ebrei tedeschi fuggiti alla Shoah, immigrato in Israele a 15 anni e poi divenuto sacerdote (e anche dal 2009 al 2017 vicario per i cattolici di espressione ebraica del Patriarcato latino di Gerusalemme), p. Neuhaus ripercorre nel lungo articolo i fatti degli ultimi mesi da una prospettiva del tutto inedita. Partendo dallo scontro sulle riforme giudiziarie avanzate da Netanyahu e arrivando fino alle proteste di queste settimane delle famiglie degli ostaggi nelle mani di Hamas, osserva come nello scontro “tra il governo e i suoi oppositori i protagonisti principali provengano ancora dalle élite sioniste ashkenazite che hanno dominato la storia di Israele dal 1948. Netanyahu, i membri del gabinetto di guerra, i principali generali dell’esercito israeliano, i capi dell’opposizione al suo governo, come pure la stragrande maggioranza dei giudici della Corte Suprema, provengono tutti dalle élite ashkenazite”.
Pur nella “divisione ideologica tra sionisti socialisti e sionisti revisionisti che ha segnato la politica israeliana, le élite di entrambi i campi condividono lo stesso mondo concettuale, incentrato su uno Stato ebraico per un popolo ebraico, parallelamente ai movimenti nazionalisti dell’Europa centrale e orientale, da cui proveniva la maggior parte degli ashkenaziti che giunsero come migranti in Palestina”. Oggi, però, “nelle vaste periferie della società israeliana, che costituiscono una parte consistente della popolazione, il governo, l’opposizione e la Corte Suprema sono tutti visti con il sospetto tipico dello sguardo periferico sulle élite dominanti”. Di qui la domanda: in un momento simile di crisi non potrebbero emergere proprio da queste periferie “nuove correnti di pensiero sullo Stato e sulla società che possano soccorrere Israele nel formulare risposte alle sue domande esistenziali interne ed esterne”?
In questo senso p. Neuhaus, nel suo articolo, passa in rassegna “quattro importanti periferie”, espressione di “un Israele diverso, che combatte perché i propri punti di vista e obiettivi trovino accoglienza nel dibattito pubblico”. Innanzi tutto quella dei mizrahim, gli ebrei orientali, immigrati dopo il 1948 in Israele dagli altri Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa: un gruppo molto ampio, che oggi rappresenta circa la metà della popolazione ebraica israeliana. “Vengono visti come sostenitori della destra e visceralmente antiarabi - osserva il gesuita -. Ma l’ostilità di molti mizrahim nei confronti del sionismo socialista non è riconducibile a un rifiuto della democrazia, ma alle esperienze di discriminazione subite per mano dell’élite socialista ashkenazita”.
“Negli ultimi quattro decenni - continua p. Neuhaus - è fiorita una rinascita culturale, tramite la quale questi ebrei rivendicano la propria identità e tradizione. Gli intellettuali emersi da questo ambiente hanno parlato di un’affinità culturale tra loro e il mondo arabo circostante: un’affinità che potrebbe suggerire la possibilità di una convivenza, aprendo un orizzonte che ha radici in un mondo comune e nella condivisione di una geografia e di un linguaggio che sembrano perduti nelle sabbie del tempo”. A questo proposito p. Neuhaus cita anche le posizioni dello Shas, il più forte tra i partiti religiosi che fanno parte dell’attuale maggioranza di governo in Israele, che - di fatto - si è dimostrato più moderato rispetto alle altre forze sia sul tema della giustizia sia riguardo all’etnocentrismo.
Ci sono poi gli haredim, i cosiddetti ultra-ortodossi, stimati in circa il 13,5% della popolazione israeliana e che rappresentano una seconda periferia non sovrapponibile alla destra nazionalista. Ripercorrendone la storia complessa nei rapporti con le istituzioni di Israele, p. Neuhaus ricorda come gli haredim tendano “a nutrire sospetti nei confronti delle strutture dello Stato laico e un atteggiamento negativo verso le élite dominanti, di sinistra o di destra, in particolare quando queste danno per scontato l’atteggiamento occidentale e laico sulle questioni sociali”. E in questo, spesso, si ritrovano su posizioni molto simili a quelle dei gruppi musulmani tradizionalisti.
La terza grande periferia è quella degli arabi (musulmani, cristiani e drusi) con cittadinanza israeliana, palestinesi discendenti da quanti non abbandonarono le proprie case nel 1948 e che oggi rappresentano circa il 20% della popolazione. “Combattono per l’uguaglianza - osserva il gesuita israeliano - in particolare nel campo dello sviluppo socioeconomico, dell’istruzione, della sanità, dei servizi pubblici e del governo locale, e per l’integrazione nel mondo del lavoro, spesso bloccata dall’insistenza sul fatto che Israele è uno Stato ebraico. Lottano anche contro il razzismo endemico derivante dall’etnocentrismo ebraico” che tende a identificarli “con il nemico, piuttosto che vederli come cittadini con uguali diritti”.
P. Neuhaus parla, infine, anche di una quarta periferia, quella degli immigrati dell’ex Unione Sovietica giunti in Israele negli anni Novanta, anche loro ormai un 10% della popolazione. “Erano considerati come persone istruite, di alta cultura e grandi lavoratori - spiega - oltre a costituire un potenziale contraltare sia degli ebrei orientali sia di quelli ultraortodossi, utile quindi a preservare l’egemonia ashkenazita e laica”. Ma con il passare degli anni è diventato sempre più evidente che non vivono più “l’ebraismo nel senso tradizionale del termine”. Al punto che dalla fine degli anni Novanta - annota ancora il gesuita – “nella pubblicazione annuale delle statistiche sulla popolazione in Israele è stata introdotta una nuova categoria, gli ‘altri’, cioè coloro che sono ‘non arabi non ebrei’ o ‘ebrei non ebrei’”.
“La posizione dura dell’attuale governo israeliano sulla riforma giudiziaria e la sua intransigenza nella guerra con i palestinesi sono al centro della peggiore crisi che Israele abbia dovuto affrontare dalla sua fondazione - riassume p. Neuhaus -. Inoltre, l’ideologia sionista che aveva fornito una cornice concettuale allo Stato sembra essersi esaurita, lasciando i suoi sostenitori divisi e polarizzati: sia questa ideologia, sia lo Stato che ha generato sembrano andare in pezzi”. La stessa illusione offerta dagli accordi tra Israele e alcuni vicini arabi, “dipendeva dall’oscuramento sia del grido palestinese di giustizia sia della lotta interna alla società israeliana rispetto alla propria natura”.
“Il 2023 - conclude il gesuita - ha sollevato seri interrogativi su questa visione di un nuovo Medio Oriente e sul ruolo che Israele potrà occuparvi. Guardando verso le periferie della società israeliana, si potrebbero immaginare nuove prospettive, una nuova narrazione e l’emergere di alleanze inaspettate, meno vincolate alle categorie, ai discorsi e alle posizioni ideologiche del passato, che hanno portato alla crisi attuale. Israele ha bisogno di nuovi orizzonti e di una nuova visione, ed essi potrebbero provenire proprio da queste periferie”.