La guerra in Ucraina porta il Paese nell’era della negazione e presa di distanza dal “nemico”, per affermare la “ortodossia” spirituale, morale, politica ed economica. Oggi si impongono nuovi “modelli globali” non facilmente digeribili non solo in Russia o in Oriente, ma anche in Europa e nei Paesi anglosassoni. La figura del presidente si sovrappone ormai agli zar del passato.
Con la guerra della Russia in Ucraina siamo entrati nell’era della de-trazione o de-clinazione, in quanto la de-finizione dell’identità dei popoli e delle nazioni sembra di-pendere dal prefisso, più che dal contenuto. La Russia si è sentita in dovere di di-fendere l’Ucraina assalita dalla de-gradazione occidentale, per raggiungere la sua de-militarizzazione e de-nazificazione; in tutta risposta, l’Ucraina sente ora il bisogno della de-russificazione e de-colonizzazione, indicando in questo la strada agli altri popoli ex-sovietici, già da 30 anni impegnati appunto nella de-sovietizzazione dei loro Paesi.
La negazione e la presa di distanza dal “nemico”, dall’estraneo o “traditore”, è la via maestra per affermare la propria “ortodossia” spirituale, morale, politica ed economica. Il termine più dogmatico e risolutivo di questo dramma dell’identità negata per la Russia è ormai la de-occidentalizzazione, annunciata con il neologismo della de-westernizatsija. La propaganda russa, soprattutto in questi giorni di preparazione alla Pasqua di liberazione e alla Vittoria di de-nazificazione, insiste sul concetto che “la Russia non ha mai fatto parte dell’Occidente”, una realtà demoniaca e russofobica, che cerca di imporre al mondo un dominio globale che staglia la sua ombra su tutti i continenti, facendo brillare sempre più la luce della Santa Eurasia.
La de-occidentalizzazione o “purificazione dall’influsso occidentale” è il vero contenuto delle leggi contro gli “agenti stranieri”, gli inoagenty che non possono essere altro che occidentali, in quanto gli influssi della Cina, dell’India o della Turchia sono invece da considerarsi “amichevoli”. Per questo i russi fanno pressioni sulla Georgia, sul Kirghizistan e su tutti i territori ancora poco de-colonizzati per far approvare leggi analoghe, anche a costo di provocare rivolte di piazza come sta avvenendo in questi giorni per le vie di Tbilisi. La “svolta verso Oriente” non è specificamente “pro” Oriente, ma è principalmente “anti” e “de” Occidente. I sociologi filo-putiniani affermano che “più della metà dei russi non vede alcuna utilità nella civilizzazione e nella cultura occidentale, in quanto è sempre stata estranea alla Russia e ha un carattere distruttivo”, come riportato dalla rubrica Signal di Meduza.
Tali affermazioni del resto non sono una novità per la Russia, anzi attraversano tutta la sua storia e le oscillazioni della sua autocoscienza. Nell’Ottocento, dopo la grande vittoria su Napoleone e la sua Grande Armée dell’intera Europa occidentale, si è sviluppato in Russia per decenni un grande dibattito tra “slavofili” e “occidentalisti”: i primi ritenevano che la Russia avesse una propria “idea” da esprimere nel mondo, i secondi che non ci fosse nei russi nulla di originale, e tutto era dovuto alle culture provenienti dall’Occidente. La storia in effetti ha dato ragione ai secondi, imponendo nel Novecento un sistema pensato dagli occidentali, quello del comunismo marxista, pur reinterpretato come “leninismo” e “stalinismo”, le varianti russe del “socialismo reale” imposto al mondo intero.
Il dibattito ottocentesco era a sua volta frutto della precedente occidentalizzazione dell’Impero di San Pietroburgo, voluta da Pietro il grande per fare della Russia una “finestra sull’Europa”, e conclusa da Caterina la grande come spartizione dell’Europa orientale insieme ad Austria e Prussia, con la de-portazione di massa dei polacchi nei territori siberiani. Lo stesso Pietro aveva voluto disfarsi degli eccessi di torbidi conflitti interni generati dalle scorribande nei territori “ucraini” di confine, ma anche dal fanatismo degli ortodossi “vecchio-credenti” che non volevano accettare la superiorità nei riti e nelle devozioni da parte dei greci, anch’essi da considerare “agenti stranieri” occidentali. Il Battesimo bizantino, che ha dato origine alla storia antica della Rus’, è in effetti l’importazione dall’Occidente di una tradizione che viene considerata del “cristianesimo orientale” rispetto a quello latino occidentale, a riprova che l’identità non corrisponde alla realtà neppure geografica, quando serve un de- per affermarla. La stessa ideologia cinquecentesca di “Mosca-Terza Roma”, la principale definizione della missione della Russia nella storia, si basa sull’eliminazione delle due Rome precedenti, e la profezia si conclude precisando che “una Quarta non ci sarà”.
La retorica della de-westernizatsija, al di là degli archetipi contrastanti dell’anima russa, impone una riflessione che riguarda il futuro non soltanto della Russia. Che cos’è “Occidente”, e che cosa significa essere “sotto l’influsso occidentale”? L’approvazione del Congresso americano dei nuovi aiuti all’Ucraina è stata salutata dal presidente Biden come “affermazione della supremazia americana e occidentale nel mondo”, ma il modello di questa superiorità non è certo limitato alle armi o ai droni d’assalto. Occidente vuol dire democrazia liberale ed economia di mercato, o quanto meno la scelta di un regime comprensibile e organizzato secondo regole accettabili da parte degli occidentali. L’epoca coloniale degli europei ha in effetti imposto in tutto il mondo sistemi analoghi a quelli degli imperi e poi delle democrazie, nella relazione tra le parti sociali e le classi di padroni e lavoratori, i meccanismi finanziari e le istituzioni politiche ed educative, risolvendo l’ispirazione religiosa nella separazione tra Chiesa e Stato.
Oggi queste dimensioni si accompagnano a un frenetico processo di modernizzazione e ridefinizione tecnologica, che rendono vetuste molte componenti fondamentali come il pluralismo politico e gli equilibri parlamentari, perfino la terzietà della legge e della magistratura, imponendo nuovi “modelli globali” non facilmente digeribili non soltanto in Russia o in Oriente, ma negli stessi Paesi europei e anglosassoni, gli “occidentali” per eccellenza. In questo senso diventano più che occidentali nazioni come il Giappone e l’Arabia Saudita, di tradizioni assolutiste o addirittura teocratiche, e dominano l’Occidente le innovazioni pensate in Cina o nella stessa Russia, sciogliendo tutti i confini nella polverizzazione digitale. Non c’è una definizione esaustiva di “Occidente collettivo” o soltanto parziale, neanche alle latitudini attribuite ai “padroni del mondo” produttivo e finanziario.
La de-occidentalizzazione non porta dunque verso la scelta di un sistema rispetto a un altro, né a livello economico, né politico e culturale, e ormai neppure religioso. Si tratta di una reazione identitaria anti-globalista, un tentativo di sottrarsi al coinvolgimento nei processi di cambiamento e di contaminazione, come nell’ideologia della de-crescita e della de-modernizzazione. Essendo però irreversibile la crescita economica e tecnologica, la differenza con il “mondo ostile” può avvenire soltanto nella contrapposizione e nella competizione, ciò che di fatto comporta un legame ancora più stretto e inevitabile: più si cerca di de-occidentalizzarsi, più ci si occidentalizza. Questo era vero perfino all’epoca della Guerra Fredda dei regimi “opposti”, socialista contro liberale, che per imporsi scatenavano la gara alla conquista dello spazio e al controllo delle nazioni, nutrendosi comunque di continui conflitti armati in ogni angolo del mondo.
Non ha alcun senso la de-occidentalizzazione della Russia, per quanto siano prevedibili dei “salti all’indietro” anche nel controllo della proprietà privata, come affermato da Vladimir Putin al congresso degli imprenditori e investitori per “evitare danni allo Stato”, oltre all’evidente ritorno al controllo totalitario delle coscienze. La figura del presidente ormai si sovrappone a quella degli zar del passato, e le leggi stesse sembrano regredire al livello delle uloženja, i decreti seicenteschi che tentavano di comporre i “torbidi” delle varie anime della Russia in bilico tra presente e futuro. Si possono rompere le relazioni diplomatiche con gli Stati occidentali e ogni tipo di accordo internazionale fino alla disgregazione dell’Onu e al disprezzo del tribunale dell’Aja, o dichiarare lo scisma ortodosso tra Mosca e Costantinopoli, ma tutto questo appare più una scena teatrale che una vera “ridefinizione” della posizione del Paese nelle relazioni globali. Se la Russia intende rifiutare il mondo intero, il problema non è che diventerà inaccettabile per l’Occidente, ma che diventerà incomprensibile per sé stessa.
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