A sette anni dalla grande fuga di centinaia di migliaia di membri della minoranza musulmana dal Myanmar, la situazione nei centri di accoglienza del Bangladesh è ancora di emergenza. Il racconto di un gesuita, da anni impegnato nell’opera di aiuto e accoglienza. Dhaka ha risorse limitate, ma prima di rimpatriarli serve stabilità e pace nell’ex-Birmania.
Cox’s Bazar (AsiaNews) - “La situazione è più o meno la stessa. Le violenze nei campi continuano, con episodi di furto, atti vandalici, omicidi e rapimenti che si susseguono come prima” e “non vi sono legami col movimento di protesta”. Sono passati ormai sette anni dal tragico 25 agosto 2017, quando oltre 700mila Rohingya, uomini e donne, bambini, hanno abbandonato in tutta fretta il Myanmar cercando riparo in Bangladesh, per sfuggire alle brutalità dell’esercito birmano. Tuttavia, dalle parole del gesuita p. Jerry Gomes, responsabile dei programmi del Jesuit Refugee Service (Jrs) nel Paese del sud dell’Asia, emerge un quadro ancora oggi critico per la minoranza musulmana proveniente dallo Stato occidentale di Rakhine. Le speranze iniziali di una soluzione, spiega il 56enne sacerdote, sono andate vanificandosi in un quadro di crescente complessità. E violenze.
Dall’aprile 2020 p. Gomes è responsabile dei programmi in Bangladesh del Jrs, l’organismo cattolico internazionale a sostegno dei rifugiati fondato nel 1980 e oggi presente in 58 nazioni. Nel Paese asiatico è attivo da sette anni a Cox’s Bazar, dove opera a fianco della Caritas locale per portare aiuto e conforto ai Rohingya rifugiati dal Myanmar, in particolare i bambini e gli adolescenti curando anche il loro benessere mentale e sostegno psicologico. Dalla sua istituzione nel 2018 ha gestito 11 centri (Multi-purpose Child and Adolescent Centers) che servono 6.132 bambini e adolescenti, 1.879 madri in attesa e in allattamento e 2.500 caregiver. Ad oggi, sette gesuiti e due laici, insieme a 19 dipendenti del Bangladesh e 42 volontari, lavorano in collaborazione con Caritas Bangladesh, grazie anche ai finanziamenti dei donatori raccolti dal Jrs.
Il religioso spiega come il perdurare della guerra civile in Myanmar alimenti l’esodo, mentre un numero crescente di Rohingya cerca di fuggire ancora oggi per scampare alle persecuzioni. Al riguardo, egli ricorda l’ultimo episodio in ordine di tempo avvenuto a inizio agosto e che ha causato la morte - in un attacco a colpi di droni con un rimpallo di responsabilità fra esercito golpista birmano e Arakan Army - di oltre 200 persone. “I Rohingya difficilmente riescono a fidarsi dei gruppi ribelli o dei militari. I gruppi ribelli - afferma p. Gomes - sono più interessati a stabilire la democrazia, mentre i militari puntano mantenere saldo il governo dei generali”. Ciononostante, su un punto vi è una comune visione di interessi: “Sia i militari che i gruppi ribelli - afferma il prete, che vive a Cox’s Bazar, vicino ai campi profughi - non sono interessati a incorporare i Rohingya nella loro società”.
Il sacerdote sottolinea l’importanza di un intervento della comunità internazionale, perché Dhaka da sola non può affrontare e risolvere l’emergenza Rohingya, anche e soprattutto per le “risorse limitate”. “La comunità internazionale - prosegue - dovrebbe affrontare la questione del rimpatrio poiché il Bangladesh non può trattenerli a lungo” e individuare una “soluzione durevole”. “Il rimpatrio dei Rohingya dal Bangladesh al Myanmar non è una soluzione percorribile, se prima - aggiunge - non si crea un’atmosfera pacifica e favorevole in Myanmar, perché tutte le comunità etniche possano vivere in pace e armonia. [Intanto] sino a quando i Rohingya saranno nel nostro Paese come ospiti, dobbiamo amarli e prenderci cura di loro”.
P. Gomes porta la testimonianza di Cristo nel suo ministero accanto ai rifugiati musulmani dal Myanmar, rilanciando le parole di papa Francesco pronunciate a Dhaka il primo dicembre 2017 dopo aver incontrato 16 Rohingya e ascoltato la tragica storia. Il pontefice e la Chiesa cattolica, sottolinea il gesuita, “pensano che nessuna comunità debba essere lasciata indietro” e nel farlo egli ricorda la figura del “buon samaritano” del Vangelo di Luca, al servizio “dello straniero in difficoltà”. Dal 2019 al 2023 il Jrs Bangladesh ha compiuto progressi significativi nel servire i bambini e gli adolescenti Rohingya (0-18 anni) integrandone istruzione, cura mentale ed educazione alla pace. L’educazione informale, la formazione professionale e l’advocacy hanno approfondito le questioni principali, compresi i servizi speciali per i bambini con disabilità. Anche le competenze professionali e gli sforzi per lo sviluppo delle capacità hanno rafforzato la comunità rohingya.
Fra le sfide, prosegue il sacerdote, vi sono l’impatto dei disordini politici del Myanmar sui campi Rohingya, l’aumento della violenza e la necessità di insediamenti ecologici e progetti di coesione sociale. Le iniziative educative sono fondamentali, con 400mila bambini Rohingya in età scolare nei campi ma solo 300mila che frequentano i centri di apprendimento. Un deficit di fondi del 70% ostacola gli sforzi, ed è necessario rafforzare la responsabilità, la cura del personale e l’allineamento con le priorità organizzative come la protezione e la spiritualità ignaziana”. P. Gomes è fermamente convinto che il rimpatrio, da solo, non sia una soluzione per i Rohingya, senza garantire prima la pace in Myanmar. Al contempo, il Bangladesh “con le sue risorse limitate non può ospitarli all'infinito; la comunità internazionale deve trovare una soluzione duratura. Nel frattempo, è fondamentale prendersi cura dei Rohingya - conclude - come ospiti, come sottolineato da Papa Francesco, che ha riconosciuto la loro condizione come una profonda questione umanitaria”.