Ditte straniere e Partito alleati contro gli operai cinesi e i sindacati autonomi
Il Partito accusa le imprese di non favorire la creazione di sindacati. Le imprese lo accusano di voler controllare gli operai. Conclusione: lo sfruttamento è totale anche perché manca un sindacato autonomo. Chi osa organizzarsi in modo indipendente va dritto in prigione.

Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Salari troppo bassi, eccessivi carichi di lavoro (anche oltre le 15 ore al giorno), assenza di misure di sicurezza: è questa la situazione degli operai che lavorano nelle ditte straniere. La denuncia è contenuta in uno studio della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, reso pubblico il 31 dicembre scorso.

 

Secondo tale studio, proprio nei luoghi dove maggiore è lo sviluppo economico – come nel Guangdong e nel Fujian – vi è pure un aumento di conflitti tra lavoratori e ditte estere. Per questo lo studio richiede una maggiore tutela degli operai, una nuova legge sui rapporti di lavoro e un maggior controllo sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche.

 

La legge cinese riconosce il diritto di costituire una rappresentanza sindacale per i lavoratori nelle ditte che hanno almeno 25 dipendenti, ma le imprese estere sono accusate di opporsi a una presenza sindacale nelle loro fabbriche. Solo lo scorso dicembre la Wal-Mart ha accettato la creazione di una sezione presso il suo impianto. La ditta ha 68 punti vendita con 36mila dipendenti in Cina. Secondo dati ufficiali, alla fine del 2005 in Cina circa 150mila compagnie estere avevano in corso oltre 570mila attività commerciali con l’impiego di 25 milioni di lavoratori.

 

La denuncia verso le ditte straniere è un tentativo dei sindacati cinesi (in stretta connessione con il Partito) di voler riconquistare la guida dei lavoratori anche fra le fiorenti ditte estere, dopo aver subito lo sfacelo di milioni di licenziamenti nelle ditte statali, a causa delle ristrutturazioni.

 

Le compagnie straniere si difendono dalle accuse. Esse osservano anzitutto che i sindacati cinesi sono solo un’emanazione del Partito comunista e che la Cina non consente la nascita di sindacati liberi. Esse inoltre affermano che sono soprattutto i sub-committenti cinesi a costringere gli operai a fare molte ore di lavoro straordinario senza pagarli. Infine, molte imprese estere rivendicano un buon controllo sulle condizioni di lavoro tramite propri ispettori, e accusano di inefficienza proprio i controlli pubblici.

 

In realtà, secondo diversi esperti, l’attuale situazione è vantaggiosa per le imprese e per il governo. Uno studio su 1.800 imprese Usa in Cina da parte della Camera di commercio americana a Pechino, ha mostrato che il 42% di esse ha profitti maggiori rispetto alla media mondiale. Proprio grazie alla debolezza sindacale – e alla mancanza di sindacati liberi - il governo cinese ha evidenti vantaggi nell’attirare investimenti esteri e nel produrre merci a basso costo che invadono i mercati mondiali.

 

Secondo studiosi indipendenti, ogni notte almeno 200 milioni di operai cinesi si coricano in dormitori sovraffollati, dopo orari di lavoro anche superiori a 15 ore. Uno studio di Jehangir S. Pocha pubblicato sul S. Francisco Chronicle mostra che il problema del rispetto dei diritti dei lavoratori si pone per tutte le imprese del Paese, sia estere che cinesi. Non basta che esistano sindacati, ma – dicono – occorre vedere come tutelano questi diritti e perché non ci sono sindacati autonomi. In Cina il Partito vieta ogni sindacato autonomo nel timore di perdere l’egemonia sulla classe operaia.

 

Pocha ricorda che Pang Qingxiang, 60 anni, del Liaoning, è stato 9 mesi in prigione per avere organizzato le rimostranze dei lavoratori non pagati nella sua fabbrica. Pang dice che chi organizza gruppi autonomi di lavoratori è sicuro prima o poi di andare a finire in carcere. Secondo organizzazioni per i diritti umani, nelle carceri cinesi sono rinchiusi almeno 35 attivisti del sindacato autonomo.

 

Han Dongfang, il fondatore del primo sindacato autonomo nell’89 (durante i moti in piazza Tiananmen), ha passato 3 anni in carcere e poi è stato liberato ed espulso dalla Cina per motivi di salute. Il dissidente lavora ora ad Hong Kong ed è direttore del China Labor Bullettin di Hong Kong.  Per Han, l’affermazione (del Partito) che sindacati indipendenti portano all’instabilità sociale serve solo a perpetrare lo sfruttamento dei lavoratori. “Negli Stati Uniti nel 1920 – osserva – fu detto che i sindacati potevano favorire il comunismo, ma non è accaduto”. “E’ ironico che ora, in Cina, si dica che i sindacati possano trasformare il Paese in una democrazia”. Han assiste i lavoratori nelle cause contro le ditte e il suo gruppo ha sostenuto 30 cause vincendone molte. “Così possiamo aiutare poche persone”, ammette. “Ma attraverso queste battaglie legali, possiamo mostrare che i lavoratori debbono agire insieme”. (PB)