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Vescovo di Kirkuk: il buono e il cattivo in Iraq dopo questi quattro anni
di Louis Sako*
A quattro anni dallo scoppio della guerra nel Paese del Golfo, una riflessione di mons. Sako: c'è più libertà, ma la pace non si conquista con la guerra; servono riconciliazione e sviluppo dell’economia da una parte e ricostruzione del tessuto sociale dall’altra. Appello ai cristiani iracheni per un ruolo “più dinamico” nella società.
Kirkuk (AsiaNews) - Sono passati quattro anni dall’inizio della guerra in Iraq. Le cose sono migliorate e peggiorate allo stesso tempo. Il frutto più positivo di questo conflitto è la libertà, che prima il Paese non conosceva: soprattutto intendo libertà di espressione e di partecipare ad elezioni politiche, locali e nazionali. Ma conseguenze positive sono anche: avere una nuova Costituzione, un’economia che cresce, un’amministrazione giudiziaria, salari più alti, lo sviluppo delle donne con il 25% di seggi in Parlamento, la nascita di nuovi partiti politici, l’apertura al mondo esterno attraverso internet, tv, telefoni cellulari. Forse però questa libertà non è ben compresa e vissuta, perché gli iracheni non ci sono abituati!
I risvolti negativi della guerra sono sotto gli occhi di tutti: il Paese è diventato campo di battaglia del terrorismo, non vi è sicurezza, niente lavoro, l’emigrazione cresce e al futuro ormai si guarda solo con paura…
Esiste una soluzione a tutto ciò? L’invio di più truppe non sarà di molto aiuto. La pace non si conquista con la guerra. La guerra è sempre qualcosa di brutto, costa vite, denaro e tempo. Gli uomini e le donne irachene hanno perso la pazienza, non hanno più fiducia. Hanno bisogno di sapere il prima possibile, se esiste un futuro per loro. Vogliono sperimentare concretamente che la vita quotidiana è migliore ora di prima.
Il piano di sicurezza non servirà molto se non sarà accompagnato da altre azioni efficaci per la ricostruzione del Paese, la riconquista della fiducia della popolazione e l’alleviamento della povertà. Pensiamo che pace e sicurezza possano raggiungersi solo nel quadro di un dialogo pacifico e civile: la Commissione Baker-Hamilton ha consigliato accordi di pace; il neo-comandante Usa in Iraq, il generale David Petraeus, ha dichiarato che non esiste una soluzione militare. Riteniamo che il futuro della pace nel Paese dipenda da un doppio impegno:
- Dare il via ad un’effettiva riconciliazione nazionale, che comprenda e integri tutti gli iracheni, anche i membri del passato regime, esclusi i criminali. Tutti gli iracheni devono avere la possibilità di prendere parte alla ricostruzione dello Stato. In questo senso anche i cristiani devono giocare un ruolo positivo e dinamico: invece di sentirsi spaventati e rimanere ai margini, dovunque si trovino, devono mostrare solidarietà e il loro storico senso dell’equilibrio, ricordando che apparteniamo tutti allo stesso Paese e alla stessa civiltà. Hanno il dovere di dimostrare che sono in Iraq da prima che arrivasse l’islam e che la cittadinanza non dipende dal fatto di appartenere ad una minoranza o ad una maggioranza.
- Si deve costruire un governo centrale forte a Baghdad che regga una federazione di province. Allo stesso tempo bisogna risollevare l’economia nazionale; l’Iraq ha molte risorse finanziarie, quello che manca sono buoni investimenti e coordinamento.
- È necessario infine promuovere la ricostruzione del tessuto civile e sociale in tutte le province. Tutti noi abbiamo sofferto per le violenze settarie che scuotono il Paese. I leader religiosi sono promotori di pace, quindi devono sostenere gli elementi pacifici della società e promuovere valori di dialogo attraverso omelie e gli interventi sui media. Altrimenti le tensioni tra i gruppi si intensificheranno e i militanti diventeranno più forti, il Paese verrà diviso in tre Stati e l’attuale Iraq cesserà di esistere.
Per questo chiediamo che si agisca in modo parallelo in queste due direzioni. La comunità e i Paesi della regione devono sostenere questa strategia e facilitare il ritorno di un Iraq stabile e unito.
*Arcivescovo caldeo di Kirkuk